Manifesto dei Turbo Lenti
Occupazione preferita: ascoltare la propria barba che cresce. In assenza di barba, sostituire con peli a piacere. Pensiero ricorrente: se diamo per pacifica l’idea che ogni vita umana, per il […]

Occupazione preferita: ascoltare la propria barba che cresce. In assenza di barba, sostituire con peli a piacere.
Pensiero ricorrente: se diamo per pacifica l’idea che ogni vita umana, per il solo fatto di esistere, abbia un valore e sia delicata come un fiocco di neve, e poi guardiamo scandalizzati e brutalizzati le immagini di disoccupati, sfrattati, barbonizzati, disperati, annegati, sfruttati, umiliati e offesi e perfino, con tutta la retorica inflittaci sull’Olocausto, sterminati come sono sterminati i palestinesi nell’ecatombe di Gaza, dovremmo “soffrire fino a sentirci una spugna che assorbe i problemi di tutti quegli altri stronzi, finché non ci sentiamo noi stessi degli stronzi” (Lester Bangs). Finché non proviamo più nulla. A quel punto, iniziamo a morire. Allora, chi ancora non si sia dato al transumanesimo lotta con sé stesso. Ponendosi la domanda delle domande: qual è la quantità massima di orrore che riusciamo a reggere?
Ipocrisia rivendicata: denunciare il narcisismo di massa da social network per poi praticarlo, sia pur con autoironia compensativa e spirito giocoso.
Fantasia proibita: scassinare le cassette di sicurezza contenenti le chiavi di controllo della nomenclatura mondiale di internet (DNS) che sono soltanto due, ubicate in luoghi segreti e non casuali: negli Stati Uniti d’America (che Dio li stramaledica).
Proposito sistematicamente disatteso: non avere buoni propositi, men che meno se trascinati dall’entusiasmo. Meglio intuizioni fulminee + pianificazioni quinquennali, il che è impossibile (soprattutto la seconda, causa precarietà lavorativa permanente).
Nostalgia irresistibile: ah, quei pomeriggi d’adolescente passati oziosamente in strada, ignari che di lì a qualche anno lo smartphone l’avrebbe semi-desertificata o, ben che vada, trasformata in materia per “storie” su TikTok. Si stava meglio quando si stava peggio? No. Ma c’era più noia creativa.
Dovere quotidiano: rimodellare la psiche affinché l’acme di vitalità non sia rappresentata dalla catarsi livida di un sistema nervoso stressato.
Personaggio preferito: il tizio che urlò a De Gaulle “morte ai cretini!”. È vero: è un vasto programma, una guerra perduta in partenza. Ma va combattuta.
Citazione da tenere sempre a mente: “dire pane al pane e cazzo al cazzo” (Pietro Aretino).
Mito da sfatare: la libertà individuale. A ben guardare, si tratta solo di un differente grado di oppressione: la necessità auto-torturante di illudersi di avere solo diritti, e non anche doveri. Dopodiché, sospettare di chiunque venga a catechizzarti sul senso della vita.
Mito da rivalutare: il dovere di sperimentare, differenziare, contaminare, ibridare, caoticizzare. Secondo Niccolò Machiavelli nostro maestro ed educatore, è imitando la varietas della natura che si gode appieno della vita. Spirito mercuriale. La mescolanza è grande: in tutto, tranne che in cucina dove siamo rigidamente tradizionalisti, se non reazionari (con le dovute eccezioni).
Sogno bagnato: una Sparta piena di donne, di feste, di tragediografi ateniesi omosessuali e, possibilmente, con il senso dell’umorismo.
Utopia personale: poter rivivere i sacri Misteri di Eleusi. Tre stadi: purificazione e attesa; brivido, terrore e raccapriccio in trance; luce e visione finale dell’eternità (presumibilmente simbolizzata da oggetti rappresentativi della fecondità femminile e fertilità maschile, con buona pace di chi concepisce una sessualità priva di valenza spirituale: anche una singola chiavata riecheggia nell’inconscia memoria della specie). Morte e rinascita ritualizzate, per vincere la paura della mortalità. Senza per forza includere resurrezioni, giudizi universali e altre aspirazioni da fine dei tempi.
Letture sconsigliate: tutte quelle che alimentano il bias di conferma, volgare urgenza di vedersi rassicurati nelle proprie certezze. Evoca la sicurezza dell’insalata di pollo e il letto rifatto da mammina.
Nemici: non averne. Non personali: rovinano gli ozii a fine giornata e sono indice di fragilità interiore. Nemici pubblici, invece, sì. Tornano utili alla reputazione, e poi un certo, controllato quantum d’odio tempra e immunizza dall’ingenuità.
Metodo: coltivare il difficile connubio tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà dandogli il nome che gli è proprio, e cioè vitalismo (vocabolo ingiustamente ridotto a indicare una pseudo-corrente di immaginifici fuffaroli alla Filippo Tommaso Marinetti o, alla meglio, di iconoclasti bestemmiatori finiti con il saio di frate, alla Giovanni Papini).
Surrealismo. Un certo gusto del surreale fa bene alla salute. I surrealisti francesi, che pure in fin dei conti erano dei tardo-adolescenti di genio (“il cui nemico, in fondo, è il loro papà”, Sartre), suggerivano pratiche di “cretinizzazione”, per cercare di alleviare il peso di un reale troppo prevedibile: conversazioni con prostitute da marciapiede, viaggi a caso in periferie e sperduti luoghi di provincia, incursioni in bar miserabili. Nell’epoca del rannicchiamento domestico sullo schermo del telefonino o della tv/computer, potrebbero valere come consigli di raffinata intelligenza emotiva per gli annoiati da benessere, che poi benessere non è. Altrimenti, trovarsi una Causa da sposare e impegnarsi a fondo. Oddio, sposare: diciamo fidanzarsi.
Coscienza sociale: ci stanno divorando anima e corpo assoggettandoci a una nuova servitù della gleba, in obbedienza alla quale dobbiamo produrre in cambio di un appezzamento di terra personale (non nostro, ma di proprietà di feudatari tecno-finanziari) di cui potremmo essere privati d’imperio, o qualora non fossimo più in grado di permettercelo: il nostro account presso l’azienda big tech, l’appartamento in affitto, i risparmi investiti in titoli riconducibili a mega-fondi, l’abbonamento alla piattaforma di turno.
Coscienza nazionale: l’identità è così sacra che occorrerebbe evitare di nominarla invano. Non l’abbiamo voluta, e non si ha merito né colpa nei suoi confronti. Ergo, non si dovrebbe farla degenerare a carcere mentale: è un dato di fatto e un bisogno. Ma sarebbe sano non diventare schiavi del bisogno, né idolatri del fatto compiuto. Un’identità forte non teme la diversità, un’identità debole si aggrappa ai pregiudizi per difendersi. L’identità è vitale, anche quando dà motivo per essere detestata. L’identitarismo, al contrario, profuma del culo sporco del piccolo borghese risentito.
Professione di realismo: mantenere ciclicamente attivo il principio di ribellione per limitare la pericolosa tendenza, tipica dei rivoluzionari, a schemi ideali di perfezione. In parole povere: contemplare e volere l’opposto, o quanto meno il diverso da noi, avendo come regola la rivolta contestativa verso la realtà data. Le rape umane lo chiamano: bastiancontrarismo.
Compito per il futuro: pensare veloci per agire lenti, mirando ai processi profondi in vista di risultati duraturi. Contro il turbocapitalismo, essere turbo-lenti.
Immagine preferita: cibarsi di fulmini. O, in alternativa, consegnare alla morte una goccia di splendore.
Frase preferita: “Écrasez l’Infâme” (Voltaire).
Va’, amico mio, cerca il tuo simile – simile, ho detto: non identico, sennò rimani solo – e fa’ fronte comune, da soldato con il perenne dubbio della diserzione. Per il resto, brancolare nel buio con la musica a palla rimane una buona forma di resistenza, verso l’Oscurantismo di una civiltà tenuta sveglia con il neon artificiale di una felicità obbligata, la quale esclusivamente sotto anfetamine acquista, per lo meno, un barlume di personalità.
Scritto in un momento di evasione da quella fatica di Sisifo nota come giornalismo, che in ogni caso “è sempre meglio che lavorare” (cit.).