Il segreto del sushi perfetto: la verità su questo ingrediente che è meglio evitare
C’è un segreto che aleggia sopra i ristoranti di sushi, tra bacchette impazienti e vasetti di wasabi. È un segreto che nessuno dice ad alta voce, forse perché troppo scomodo, o troppo gustoso per essere messo in discussione. Parliamo del salmone, quello arancione, lucido, così fotogenico da finire ogni giorno su milioni di piatti e...

C’è un segreto che aleggia sopra i ristoranti di sushi, tra bacchette impazienti e vasetti di wasabi. È un segreto che nessuno dice ad alta voce, forse perché troppo scomodo, o troppo gustoso per essere messo in discussione. Parliamo del salmone, quello arancione, lucido, così fotogenico da finire ogni giorno su milioni di piatti e profili Instagram. Quello che pensiamo sia il cuore del sushi, il re incontrastato delle combinazioni nigiri e uramaki. E invece…
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Il salmone nel sushi è un intruso
La cucina tradizionale giapponese, quella vera, non prevedeva affatto l’uso del salmone crudo. Fino agli anni Ottanta, in Giappone, l’idea stessa di mangiarlo fresco sarebbe sembrata assurda. Il pesce veniva sempre cotto, affumicato o salato, proprio per evitare i rischi legati ai parassiti. A cambiare tutto è stata la Norvegia, con una campagna commerciale ben studiata: nel 1986 il ministero della Pesca norvegese realizza il “Progetto Giappone”, con l’intento di convincere gli importatori, i distributori e le catene di supermercati a comprare il suo salmone. Il responsabile della campagna, Bjørn Eirik Olsen, prova una mossa azzardata: proporlo come ingrediente per il sushi. L’operazione ha esito positivo: il mondo — e soprattutto i giapponesi — si fideranno del salmone d’allevamento. Un capolavoro di marketing, non di gastronomia.
E da lì, la slavina, visto che il salmone è diventato il simbolo del sushi moderno: facile da trattare, tenero, abbondante, piace quasi a tutti. Ma a che prezzo?
L’altro lato del salmone
Il problema non è solo culturale, ma ecologico. Gli allevamenti intensivi di salmone, soprattutto quelli norvegesi e cileni, sono veri e propri focolai di inquinamento marino. Rilasci di feci, antibiotici, parassiti e microplastiche minacciano interi ecosistemi. E non è un’esagerazione da eco-guerrigliero: The Guardian ne parlava già nel 2020, mettendo nero su bianco l’impatto devastante di queste pratiche su fondali e specie autoctone.
In Cile, per esempio, gli allevamenti di salmone si trovano in aree marine fragili, spesso protette, come i fiordi della Patagonia. Eppure, ogni anno migliaia di tonnellate di mangime, residui chimici e farmaci finiscono nell’oceano. Il risultato? Un disastro. Non solo per l’ambiente, ma anche per i lavoratori, esposti a condizioni sanitarie precarie, e per i consumatori, che ignari ordinano “un sashimi misto” credendo sia un’opzione salutare.
Ma fa davvero così male?
Anche da un punto di vista nutrizionale, il salmone d’allevamento non è esattamente un campione. Ha un profilo lipidico alterato rispetto a quello selvaggio, spesso contiene più grassi saturi e meno omega-3. In più, può contenere tracce di metalli pesanti e sostanze chimiche usate nei mangimi o nei trattamenti antiparassitari.
In uno studio pubblicato su Science e rilanciato da National Geographic, si è evidenziato come i livelli di parassiti nei salmoni d’allevamento siano spesso un pericolo per la biodiversità, aspetto di certo poco confortante.
Alternative esistono. E sono deliziose
La buona notizia? Il sushi non ha bisogno del salmone, anzi, ne può fare benissimo a meno. Esistono pesci locali, meno impattanti e altrettanto gustosi, come la ricciola, la palamita, il sugarello. Oppure si può esplorare il mondo del sushi vegetale, che in Giappone ha una tradizione profonda e raffinata, fatta di alghe, tofu, radici e fermentazioni.
La verità è che ci siamo abituati troppo in fretta all’idea che il sushi debba contenere del salmone. In realtà il sushi vero — quello artigianale, fatto con rispetto — è un delicato equilibrio tra sapori, consistenze e stagionalità. Certamente non un assemblaggio standard da food delivery.
E poi c’è il tonno, anch’esso criticatissimo, che perlomeno ha radici nella tradizione giapponese. Il salmone, invece, è un pesce che ci siamo inventati come simbolo di modernità, e che ora ci costa caro.
Un piccolo gesto, una grande differenza
Certo, non si può cambiare il mondo con una cena. Però si può iniziare da lì: fare domande, chiedere la provenienza del pesce, provare varianti locali. In Italia, dove il mare è cultura e abbondanza, non mancano le opzioni sostenibili, ed un sushi fatto con del pesce azzurro, pescato in modo etico, può essere anche più buono.
Lo so, dire addio al salmone nel sushi può sembrare una rinuncia, anche se a volte i sapori migliori si trovano proprio dove non te li aspetti. E poi, è più cool essere curiosi che seguire la massa.
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