Populismo d’oltremanica e oltre Carpazi

Da Farage a Simion, quando l’Europa scopre che il dissenso ha l’alito di birra e l’accento sbagliato Sta succedendo qualcosa di grave, in Europa. Gravissimo. Sta succedendo che il popolo […]

Mag 7, 2025 - 09:39
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Populismo d’oltremanica e oltre Carpazi

Da Farage a Simion, quando l’Europa scopre che il dissenso ha l’alito di birra e l’accento sbagliato

Sta succedendo qualcosa di grave, in Europa. Gravissimo. Sta succedendo che il popolo vota. Peggio ancora: vota male. Non solo non ascolta i consigli del Financial Times e di Open, ma addirittura osa consegnare un municipio a un candidato di Nigel Farage e un primo posto nei sondaggi rumeni a George Simion. Uno insulta Bruxelles con l’aplomb di un beone al pub, l’altro fa campagna elettorale in camicia bianca urlando “Romania libera!” come se fossimo nel 1848. Panico tra gli editorialisti democratici.

Farage, il pensionato del Brexit, dato per finito da tutte le élite sobrie d’Europa, torna e si prende un seggio al Labour, un sindaco, e soprattutto la scena. Come? Parlando di immigrazione, disoccupazione e nazionalizzazioni. E qui i liberali inciampano: come osi parlare di welfare pubblico se sei populista? Solo la sinistra moderata può promettere cose di sinistra senza farle.

Ma è nell’est che il populismo ha smesso di vergognarsi. In Romania, George Simion e il suo partito — che si chiama AUR ma brilla solo per i media spaventati — stanno scalando il potere. Primo turno delle presidenziali: Simion davanti a tutti. I giornali gridano all’orda nera. Peccato che siano gli stessi che non si sono accorti che l’Europa dell’Est ha smesso di credere alle favole dell’Occidente anni fa. Da quando l’UE ha trattato la Romania come un magazzino e la NATO come un caserma.

E così, mentre Von der Leyen stringe mani a Davos, i villaggi di Tulcea e i pub di Leeds votano. Male, ma votano. E in fondo, è questo il problema: che il popolo, quando lo lasci solo, inizia a pensarla da solo.

Ma la vera tragedia — quella su cui si consumano litri di inchiostro e barili di lacrime liberal — è che il populismo ha smesso di abitare a destra soltanto. Peggio: ha iniziato a dire cose che la sinistra aveva dimenticato. E non c’è nulla di più insopportabile, per un progressista da salotto, di un populista che parla di poveri.

Il Labour inglese, ad esempio, non ha perso solo un sindaco: ha perso il contatto con la realtà. Starmer, che pare uscito da un corso accelerato per tecnocrati eleganti, ha trasformato un partito operaio in una succursale moderata del Times. Si parla di diritti, sì. Ma con garbo. Si difende il lavoro, certo. Ma solo quello nei consigli di amministrazione. E ogni tanto, per non sembrare troppo austeri, si cita Orwell — sempre dopo aver chiesto permesso alla City.

Farage lo sa. Simion pure. E infatti vincono dove la sinistra si è addormentata: nei sobborghi arrabbiati, nelle campagne ignorate, tra chi fatica a fine mese ma viene chiamato “arretrato” se lo dice a voce alta. Il populismo prospera nel vuoto, e il vuoto della sinistra è diventato una prateria.

Ma attenzione: non stiamo parlando di nostalgici del manganello. Questi nuovi populismi non hanno neppure bisogno del vecchio armamentario ideologico. Sono liquidi, scaltri, disordinati. Mischiano nazionalismo e welfare, religione e pensioni, identità e lotta sociale. Sono incoerenti, certo. Ma funzionano. Perché parlano alle viscere, mentre la sinistra continua a scrivere programmi per il cervello — quello dei convegni.

Il vero dramma è che nessuno, a sinistra, ha il coraggio di fare populismo buono. Quello che parlava di case, sanità, trasporti. Quello che un tempo si chiamava socialismo democratico e oggi viene chiamato “estremismo” se appena appena alzi la voce. Provate a dire “nazionalizzazione delle ferrovie” in una sede del PD: chiamano l’ANPI, i carabinieri e forse anche la NATO.

Così, mentre la sinistra si dibatte tra il femminismo da festival e l’antifascismo da tweet, la destra populista si prende i voti veri. Perché promette cose sbagliate, sì. Ma le promette a chi nessuno guarda più.

E allora viene da chiedersi: davvero è solo colpa del populismo? O forse è anche colpa di una sinistra che ha smesso di essere popolare perché ha paura del popolo?

E allora che si fa? Se il populismo “cattivo” avanza, se il popolo si ostina a esistere, se i Farage e i Simion bucano lo schermo mentre la sinistra dorme in redazione, chi parla davvero al popolo? Chi lo ascolta, prima ancora di educarlo?

C’è chi ci prova. E guarda caso, non siede nei salotti. Jean-Luc Mélenchon, in Francia, ha preso la Bastiglia dell’astensionismo a suon di poesia e ferocia, portando in piazza gli sfruttati, i giovani, gli operai e perfino qualche vecchio marxista arrugginito. Senza chiedere permesso a Macron né scusarsi con Le Monde. Ha osato dire che la NATO è un problema, che l’Europa dei banchieri va rifondata, che il popolo ha sempre ragione — anche quando ha torto. E ha preso milioni di voti. Cosa da non fare, dicono a sinistra.

In Germania, Sahra Wagenknecht — quella che per i progressisti da salotto è una specie di scisma ambulante — ha detto che no, non si può parlare solo di diritti civili mentre le persone fanno la fila alla mensa. Che no, non si può criminalizzare ogni critica all’immigrazione o all’UE come se fosse razzismo o eresia. Ha parlato di salario minimo, giustizia fiscale, sovranità sociale. Apriti cielo: l’hanno chiamata fascista in cashmere. Eppure, cresce.

Ecco: non serve copiare Farage o Simion. Serve smettere di snobbare chi li vota. Non serve parlare come loro. Serve parlare a loro. Se non capisci perché la gente si rifugia nei nazionalisti, non sei più progressista: sei sordo.

Il populismo non è di destra o di sinistra: è un metodo, una postura, una voce. Può essere usato per escludere o per includere. Per odiare o per liberare. Ma va preso sul serio. Va abitato. Perché se la sinistra ha smesso di farlo, qualcun altro lo farà. E già lo sta facendo.

Sta tutta qui, la grande ipocrisia europea: dire “democrazia” mentre si nega la rappresentanza. Parlare di popolo come di una platea da educare. Offrire libertà condizionata, pluralismo vigilato, dissenso compatibile. Come se la rabbia fosse un errore da correggere, non una domanda da ascoltare.

Ma la verità è che la rabbia ha fiutato la paura. E non perdona. Le élite si rifugiano nei loro acronimi — BCE, FMI, SPD, PPE, PD, SGP — mentre fuori, la sigla che conta è solo una: SOS.

SOS della sinistra che ha smarrito il popolo, mentre si trastullava con i seminari su come non offendere nessuno. SOS della democrazia che ha sostituito la partecipazione con il paternalismo. SOS di un continente che si crede ancora “centro del mondo” ma è diventato periferia di sé stesso.

I popoli votano. Male? Forse. Ma votano. E quando votano “male” non è colpa loro: è colpa tua, che non c’eri. Che li hai lasciati soli, tra Farage e i fantasmi, tra Simion e le rovine.

Il futuro non si ferma con un fact-checking. Non basta un’infografica per spegnere l’urlo. E no, non esistono filtri che salvino l’Europa dall’aver ignorato se stessa.

La domanda non è se il populismo sia una minaccia. La domanda è: dove diavolo siete stati, mentre nasceva?