Tra l’America di Trump e la Russia di Putin
I due grandi sconfitti della globalizzazione che negli ultimi vent’anni ha strappato almeno un miliardo di esseri umani alla povertà L'articolo Tra l’America di Trump e la Russia di Putin proviene da Economy Magazine.

Questo mese, anche a costo di apparire troppo ottimista Il Globalista si sente di fare una previsione a prima vista esagerata. Eccola: i due grandi sconfitti della globalizzazione, cioè di quel sistema economico che negli ultimi vent’anni, insieme con tutte le diseguaglianze e le crisi (politiche, climatiche, istituzionali, etc.) che conosciamo, ha strappato almeno un miliardo di esseri umani alla povertà dall’Africa al Sud-est asiatico; i due grandi sconfitti della globalizzazione, si diceva, sono la Russia di Putin e gli Stati Uniti di Trump. Proviamo ora a spiegarlo partendo dai dati (che, però, in un Paese autoritario come la Russia sono gestiti dall’agenzia di Stato Rosstat agli ordini del Cremlino) e dalla loro interpretazione da parte di Ong e di think tank indipendenti che si sono attrezzati a leggere le statistiche e le informazioni come facevano un tempo – al tempo dell’Unione Sovietica – i cosiddetti “cremlinologi”.
Ebbene, già da una prima analisi dei dati forniti da Rosstat risulta che il famoso tasso di crescita del Pil della Russia pari al 4,1% nel 2024 considerato da tanti fedeli seguaci del putinismo (anche nostrani, dall’ineffabile professor Orsini, ospite seriale di tanti talk show sulle reti pubbliche e private, allo sguaiato ministro Salvini, quello che non esitava a dichiarare di essere pronto a scambiare due Mattarella con mezzo Putin) la prova provata della resilienza economica di Mosca, altro non è che una “fake news”. Perché? Per una semplice ragione statistica: questa percentuale da economia in buona salute è, diciamo così, alterata da un “deflattore” che, opportunamente manipolato dagli economisti di Rosstat, modifica le dinamiche del reddito nazionale (e quindi del reddito delle famiglie), del tasso di crescita dell’industria e dei servizi, dell’export e dei consumi interni.
Allora per capire come stanno le cose, cioè che cosa c’è dietro quella percentuale del 4,1% di crescita del Pil (percentuale che sembra una sonora smentita di tutte le fosche previsioni del Fondo Monetario Internazionale dopo tre anni di guerra feroce in Ucraina con oltre un milione di morti) bisogna andare a interrogare la signora Elvira Nabbiullina, la governatrice della Banca Centrale russa che da qualche tempo non appare più nell’inner circle putiniano. E a ragione. Infatti, a fronte di un tasso di inflazione che ha superato il 10% (il 10,1% ad aprile scorso), la banca centrale è stata costretta a tenere il tasso d’interesse al 21%, un record storico che da un lato rallenta la crescita (d è questo il rimprovero che amici dell’autocrate del Cremlino rivolgono alla Nabbiullina) ma dall’altro segnala – ed è qui che entrano in campo gli analisti indipendenti, i famosi cremlinologi di cui si parlava prima – gli effetti negativi (o positivi, a seconda dei punti di vista si capisce) di quel “deflattore” applicato dagli economisti di Rosstat per far apparire in buona salute (con una crescita del Pil del 4,1%!) un sistema produttivo che, invece, traballa per non dire di peggio.
Dall’inizio della guerra (che non si arresta, con stragi continue di civili ucraini, financo la Domenica delle Palme), l’economia russa è stata costretta a una doppia torsione: all’esterno verso l’Asia e la Cina, all’interno verso l’apparato industrial-militare (per usare un’espressione del presidente americano Eisenhower) con le ordinazioni di materiale bellico decise dal Cremlino. Questo ha consentito a Putin di proclamare la sostanziale inutilità delle sanzioni occidentali (cosa non vera!), ma non ha impedito il crollo vero, reale (che non appare nelle statistiche ufficiali di Rosstat, ripetiamolo) del sistema industriale.
In realtà, in questi tre anni di guerra la Russia è cresciuta di un modesto 2,13%, vale a dire 0,8 punti al di sotto della media mondiale e due punti meno dei Paesi vicini (tranne l’Ucraina). Non solo, più di un terzo dei russi ha visto il proprio reddito reale scendere pesantemente, almeno il 10% per una famiglia su cinque (ancora dati della Banca centrale). Insomma, il ritmo di crescita della Russia putiniana quest’anno è tre volte più debole del 2024 (a causa anche dei dazi imposti dall’amico americano Trump).
Al centro di tutto, ancora una volta, il gas e il petrolio che rappresentano il 5% del pil mensile di Mosca (era l’11% all’inizio della guerra). Ma la rete di protezione della rendita petrolifera non funziona più. Se il prezzo del petrolio scende sotto i 35-40 dollari al barile, semplicemente Putin non potrà più finanziare la sua guerra in Ucraina, come ha scritto Tatiana Kastouéva-Jean, direttrice del Centro Russia-Eurasia associato all’Ispi.
Conseguenza: non ci sarà bisogno di firmare un trattato di pace (già rinviato da Pasqua a settembre) con Trump il quale, al netto dei tanti eccessi, per così dire, dei suoi amici miliardari, ora deve fare i conti con la debolezza economica degli Stati Uniti che, come ha scritto il famoso economista francese Thomas Piketty, non sono più (e da tempo, solo che non ce n’eravamo accorti) un Paese affidabile. L’altro grande sconfitto della globalizzazione, come si diceva all’inizio.
Vediamo perché partendo anche stavolta dai dati. Che sono pessimi per quella che era fino a poco tempo fa l’unica potenza imperiale globale. Diciamo subito che a parità di potere d’acquisto (di beni e servizi), il pil della Cina ha superato quello degli Usa già nel lontano 2016. Oggi è il 30% più alto e supererà quello americano nel 2035. Come a dire, spiega Piketty, che gli Usa sono sul punto di perdere il controllo del mondo.
Fatto ancor più grave: l’accumularsi negli anni dei deficit commerciali ha spinto il debito estero (pubblico e privato) verso l’impressionante percentuale del 70% sul pil. Non solo: l’aumento dei tassi (conseguenza dei dazi e dell’inflazione indotta) costringerà gli Usa a versare ai suoi creditori un flusso di interessi (il cosiddetto servizio del debito) davvero impressionante. Flusso che Trump si illude di poter fermare sparando dazi a raffica a tutti i paesi del globo terracqueo per dirla con l’immagine meloniana.
Per fare un confronto, va detto tra l’altro che, dal punto di vista storico, questo enorme deficit commerciale (dal 3 al 4% annuo dal 1995 ad oggi) ha un solo precedente: il deficit commerciale delle grandi potenze coloniali europee (Gran Bretagna, Francia, Olanda, Germania) tra il 1880 e il 1914, data d’inizio della Prima guerra mondiale. La differenza sta nel fatto che queste potenze coloniali, all’epoca, controllavano importanti “attivi esterni” (nelle colonie) che permetteva loro di finanziare il deficit, cosa che Trump semplicemente non può fare.
Il presidente americano, dice ancora Piketty, è come un imperatore coloniale dimezzato. Egli vorrebbe che la famosa “pax americana” venisse pagata con i dazi versati dai paesi di tutto il mondo riconoscenti (così si spiega il “kiss my ass”). Ma è evidente che è una sfida impossibile perché dal 1945 ad oggi il mondo è cambiato e nessun Paese, neanche il piccolissimo Lesotho che fornisce il cotone per i jeans Levis, è disposto a finanziare il gigante americano. Via d’uscita? Cominciare a pensare il mondo senza gli Stati Uniti a far da padrone, costruire un nuovo multilateralismo (cioè una nuova globalizzazione) cambiando le regole e riformando profondamente la governance del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale dando più spazio ai Paesi del Grande Sud (Brasile, India, Sudafrica) anche per evitare che questi Paesi creino, a loro volta, un’architettura internazionale parallela sotto l’ala di regimi autoritari come la Cina e la Russia.
E qui, conclude Piketty, che si vedrà quale ruolo vorrà darsi l’Unione europea: se restare a fianco degli Usa e dei vecchi Paesi ricchi (potremmo chiamarla l’opzione meloniana) oppure costruire (meglio: contribuire a costruire) un nuovo modello di globalizzazione e di sviluppo internazionale superando, bypassando, i grandi sconfitti di oggi, la Russia di Putin e l’America di Trump.
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