L’ex direttore di San Vittore: "Ma farli lavorare fuori è necessario"

Luigi Pagano ha guidato anche il Dap: i permessi sono un istituto importante per il reinserimento "È una scommessa, ma neanche tra gli incensurati abbiamo la certezza che nessuno delinquerà".

Mag 13, 2025 - 05:46
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L’ex direttore di San Vittore: "Ma farli lavorare fuori è necessario"

I permessi per il lavoro esterno, così come tutte le altre iniziative finalizzate a un reinserimento del detenuto nella società, non sono misure "buoniste" ma necessarie e fondamentali per abbattere il tasso di recidiva e "prevenire" quindi altri reati: "Quello che è accaduto a Milano dovrebbe indurre piuttosto a potenziare l’accompagnamento sul territorio". Luigi Pagano, ora in pensione, conosce il mondo delle carceri per averci trascorso una vita professionale. Per 15 anni è stato direttore del carcere milanese di San Vittore, uno dei penitenziari con il peggior tasso di sovraffollamento. È stato provveditore per la Lombardia, vice capo del Dap nazionale, ha varato sperimentazioni e progetti innovativi.

Il ministro Nordio ha avviato verifiche, il permesso concesso a De Maria ha sollevato polemiche e interrogazioni parlamentari. Qual è la sua riflessione?

"Non ho una conoscenza diretta su questo caso, ma posso dire che i permessi per il lavoro esterno sono una delle misure che l’ordinamento prevede e che le case di reclusione utilizzano. Il reinserimento sociale dei detenuti è un obiettivo fissato dalla Costituzione, e questo passa anche attraverso il lavoro esterno".

È un istituto diffuso?

"Il ricorso al lavoro esterno è ancora limitato, mentre invece sono molto più diffuse le misure alternative al carcere. In Italia ci sono circa 100mila persone che scontano la pena con l’affidamento in prova, ai domiciliari o in semilibertà, altre 100mila hanno chiesto di ottenere misure alternative e nel frattempo si trovano in libertà. I detenuti nelle carceri, invece, sono 61mila. Gravissimi episodi come quello di Milano sono casi isolati, e per capire l’importanza di questi percorsi basta guardare i dati".

Che cosa ci raccontano?

"Tra i detenuti che escono dal carcere direttamente, senza un percorso, il tasso di recidiva è di circa il 70-80%. Il carcere desocializza, questi percorsi andrebbero potenziati seguendo anche gli obiettivi della riforma Cartabia. Il problema è che resta nelle carceri chi non ha risorse – tossicodipendenti, irregolari, persone con problemi psichici – allargando sempre di più la forbice".

Esistono, a suo avviso, carenze nei controlli?

"I controlli ci sono, ma quello che andrebbe potenziato è l’accompagnamento, perché i detenuti vanno seguiti sul territorio. Servirebbero, per questo, più risorse".

L’episodio avvenuto a Milano si poteva, secondo lei, prevedere e prevenire?

"Temo di no, nessuno può avere la certezza che una persona non commetta dei reati, e questo vale anche nel mondo “normale“. I progetti per il reinserimento nella società sono una scommessa sull’uomo, che a volte si perde. Non mi sembra che i Paesi dove è in vigore la pena di morte abbiano sconfitto il crimine".

Le sono capitati, nella sua esperienza, casi analoghi?

"Un caso così grave non l’ho mai vissuto ma ci sono state evasioni, detenuti in permesso che hanno commesso rapine o altri reati".

Si torna a parlare di una responsabilità dei magistrati. Che cosa ne pensa?

"Un magistrato che approva un percorso, sulla base di relazioni positive, che responsabilità può avere? Scaricare sul magistrato, o sul direttore del carcere, la responsabilità quando un detenuto delinque avrebbe un solo effetto: non verrebbero più concesse misure alternative o permessi. Anche chi sconta l’ergastolo prima o poi esce, e va reinserito".