Perché siamo entrati nel Plutocene
La decisione dello scorso anno da parte della Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS) di respingere la richiesta di formalizzazione dell’Antropocene come nuova epoca geologica, poiché non supportata dagli standard richiesti dai protocolli ICS per definire un’epoca, ha riportato al centro del dibattito scientifico e sociale la discussione sull’età in cui viviamo e sul ruolo delle […] L'articolo Perché siamo entrati nel Plutocene proviene da Il Fatto Quotidiano.

La decisione dello scorso anno da parte della Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS) di respingere la richiesta di formalizzazione dell’Antropocene come nuova epoca geologica, poiché non supportata dagli standard richiesti dai protocolli ICS per definire un’epoca, ha riportato al centro del dibattito scientifico e sociale la discussione sull’età in cui viviamo e sul ruolo delle nostre azioni. Azioni che continuano ad avere un impatto sul nostro pianeta a un livello tale che, secondo alcuni studiosi, gli esseri umani sono per la prima volta una forza geofisica, come quelle che generano terremoti ed eruzioni, in grado di modificare, probabilmente in modo irreversibile, il corso del nostro pianeta.
Sebbene non vi sia un consenso unanime sull’inizio dell’Antropocene, la costruzione del primo reattore nucleare noto come Chicago Pile-1 alla fine del 1942 da parte di un gruppo di scienziati guidati da Enrico Fermi ha rappresentato una svolta nella vita umana e negli ecosistemi terrestri. In questo contesto, se il rifiuto di definire l’Antropocene come epoca geologica rappresenta un’opportunità affinché il termine maturi e prosperi come concetto informale e inclusivo in diverse discipline, culture e visioni del mondo, diversi segnali indicano che stiamo vivendo in un’età che possiamo chiamare Plutocene.
Il termine Plutocene è stato proposto per la prima volta nel 2017 da Andrew Y. Glikson per indicare un’età caratterizzata dall’accumulo di plutonio nei sedimenti come documentato nella Piana Abissale di Sigsbee nel Golfo del Messico. Intervalli sedimentari caratterizzati da alti livelli di plutonio che sono stati misurati in tutto il mondo sia in bacini endoreici come i laghi che in sistemi marini, dalle zone costiere prossimali alle aree profonde distali, nonché nella colonna d’acqua. Studi recenti condotti nella Baia di Beppu (Giappone, Oceano Pacifico) indicano che il record sedimentario mostra un chiaro aumento del plutonio a partire dal 1950 a seguito di test nucleari, con un picco negli anni 60 e un declino negli anni 70 in risposta al trattato di messa al bando parziale degli esperimenti nucleari firmato nel 1963. Elementi radioattivi che possono anche essere trasportati e diffusi dalle correnti oceaniche su vaste aree, formando accumuli concentrati di plutonio.
Se a ciò aggiungiamo la presenza, ad oggi non accertata dal punto di vista giudiziario per mancanza del corpo del reato, delle cosiddette ‘navi a perdere’ riempite di fusti con scorie radioattive e affondate a largo nel Mediterraneo lontano da occhi indiscreti, e la contaminazione da plutonio di suolo e organismi marini legati all’incidente nucleare di Palomares (Almeria, Spagna) avvenuto nel gennaio del 1966 e per il quale gli Stati Uniti dopo quasi 60 anni ancora mancano di cooperare con il governo spagnolo per la bonifica e rimozione del terreno contaminato, capiamo come il plutonio sia già abbondantemente presente in modo non controllato nell’ambiente in cui viviamo.
L’attuale, e sempre più crescente, minaccia quotidiana dell’uso di armi nucleari da parte di diversi paesi, così come il crescente dibattito sull’energia nucleare come fonte per garantire la fase di transizione energetica, indicano un futuro caratterizzato da un aumento dei livelli di plutonio nell’atmosfera e negli ecosistemi. In questo scenario, si creerebbero le condizioni per una maggiore diffusione del plutonio nei tre elementi (acqua, aria e terra) cruciali per la nostra sopravvivenza, con conseguente aumento drastico della temperatura e un impatto sugli habitat naturali e sulle popolazioni, rendendo il Plutocene una conseguenza naturale dell’Antropocene.
Se restringiamo la focale e ci soffermiamo un attimo sulla situazione italiana riguardo al tema delle centrali nucleari e trattamento delle scorie, vediamo che la mancanza di siti sicuri per lo stoccaggio delle scorie prodotte dalle centrali italiane fino al loro funzionamento temporaneamente stoccate in Francia e Regno Unito, e la confusione politica intorno al tema del ritorno al nucleare rende il rischio di ritrovarsi del tutto impreparati al centro di un plutonium hotspot molto concreto.
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