Lo conoscete l’algoritmo bipede? Tiene insieme mente, corpo e tecnologia (che evolvono assieme)

Che cosa succede al nostro cervello quando le nostre mani iniziano a utilizzare una tecnologia inventata dalla nostra stessa mente? Prova a rispondere a questa domanda – anche con un pizzico di ironia – Martina Ardizzi, docente di Psicobiologia all’Università di Parma, anticipando per la nostra rubrica Futuro da Sfogliare un estratto del suo libro "L'algoritmo bipede", edito da Egea

Mag 18, 2025 - 10:48
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Lo conoscete l’algoritmo bipede? Tiene insieme mente, corpo e tecnologia (che evolvono assieme)

Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro L’algoritmo bipede di Martina Ardizzi, edito da Egea.

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Il corpo e i sensi umani hanno guidato lo sviluppo della tecnologia. Su questo non c’è dubbio. Gli strumenti motori hanno letteralmente la forma del palmo della nostra mano, così come gli strumenti sensoriali parlano primariamente al nostro senso principale che è la vista. Per esempio, per «vedere» all’interno del corpo umano ci siamo inventati delle tecnologie che traducessero i tessuti interni in contrasti di bianco e nero visibili ai nostri occhi (pensiamo alle radiografie o alle ecografie). Probabilmente, se fosse stato l’udito il nostro senso principale avremmo trovato delle soluzioni tecnologiche diverse, qualcosa che ci avrebbe fatto «sentire» che cosa c’è all’interno del corpo.

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La tecnologia parla la stessa «lingua incarnata» dei sensi e del corpo dell’uomo che l’ha progettata, e grazie a questo ci spinge oltre i nostri limiti fisici. La domanda che dobbiamo porci, se vogliamo indagare la fusione tra corpo e tecnologia, è se il nostro cervello è sufficientemente plastico da integrare l’esperienza data da uno strumento tecnologico. In altre parole, se nella fusione tra corpo e tecnologia possiamo dotarci di sensi artificiali. Dal punto di vista strettamente neuroscientifico questo costituisce il nocciolo della questione.

Le ricerche neuroscientifiche in quest’ambito sono ancora piuttosto limitate, ma complessivamente sostengono che il cervello dell’uomo è sufficientemente plastico per potersi adattare a una tecnologia incorporata e poter quindi fare spazio a «nuovi sensi». In un recente progetto di ricerca, persone comuni hanno indossato per un certo periodo un dispositivo chiamato vibrotactile compass belt (bussola a nastro vibrotattile): una cintura che vibra ogni volta che chi la indossa si orienta verso nord. Dopo un certo periodo di utilizzo, le persone che hanno partecipato allo studio sviluppano una sorta di «senso del nord» costante e anche senza la cintura sono in grado di riferire la posizione del nord. Inoltre – e questo è ancora più interessante – hanno migliorato le loro capacità di orientamento. Questo significa che il cervello non è solo diventato sensibile a qualcosa che prima non era in grado di percepire, ma anche che questo «nuovo senso» viene utilizzato per compiti cognitivi che prima si issavano solo sull’esperienza data dai sensi naturali.

Il cervello può dunque incorporare sensi artificiali che non fanno parte dell’esperienza umana naturale. Attenzione: non si tratta dell’uso protesico della tecnologia. È piuttosto la possibilità di cambiare l’esperienza stessa che abbiamo del mondo incorporando la tecnologia. E allora, che cos’è squisitamente corpo e che cos’è tecnologia? Possiamo forse sostenere che siano due entità dai confini così netti?

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Martina Ardizzi

Questo saggio soffre di un limite intrinseco[…]: sia le tesi qui formulate, sia gli studi su cui esse si basano sono intrise di un dilemma epistemologico. Siamo menti che indagano le menti. Abbiamo una prospettiva completamente schiacciata sul nostro ombelico; oggetto e soggetto dell’indagine corrispondono. La soggettività del pensatore e dello scienziato non è mai, in nessun campo, eliminabile. Ma quando si tratta di studiare la mente a questa soggettività si aggiunge un problema di circolarità del processo conoscitivo.

L’idea che nel tempo abbiamo avuto in testa a proposito di che cosa dovesse essere la nostra stessa mente ha necessariamente condizionato il suo studio. D’altronde le domande ce le facciamo a partire da quello che pensiamo. In questo senso, abbiamo utilizzato la tecnologia per rispondere a domande poste secondo specifici modelli di mente. Per esempio, nel 2011 si è scatenato l’inferno a causa dell’articolo «You Love Your iPhone. Literally» pubblicato sul New York Times. L’autore, Martin Lindstrom, sosteneva che l’attaccamento emotivo degli utenti verso l’iPhone fosse paragonabile all’amore, basandosi su dati di neuroimaging che mostravano l’attivazione della corteccia insulare del cervello. Numerosi neuroscienziati hanno criticato queste conclusioni (lanciando sempre i loro mocassini e puntatori laser) evidenziando che l’attivazione della corteccia insulare è associata a una vasta gamma di processi e non può essere interpretata univocamente come indicativa di amore. Lindstrom, che non è un neuroscienziato ma un esperto di marketing e brand, scrivendo quelle parole metteva in luce come la sua idea di mente seguisse ancora il modello di stampo classico che enfatizza la modularità funzionale, suggerendo che funzioni cognitive diverse (come percezione, linguaggio e memoria) siano gestite da moduli cerebrali specifici e indipendenti. Tra le varie aree, il modello classico ne immagina una per il pensiero matematico, una per la creatività, una per i sogni e ovviamente una per l’amore; quest’ultima coinciderebbe con la corteccia insulare e, se si attiva in risposta all’immagine del cellulare, significa che siano innamorati del nostro cellulare.

Il problema è che, ovviamente, il cervello e la mente non sono così semplici. Le tecnologie avanzate come la risonanza magnetica funzionale e l’elettroencefalografia hanno permesso di osservare l’attività cerebrale in tempo reale, offrendo dati empirici per validare o rivedere i modelli teorici. Questi strumenti hanno evidenziato la complessità e l’interconnessione delle reti neurali, suggerendo che la mente non è localizzata in aree specifiche, ma emergente da interazioni distribuite. Insomma, Lindstrom non aveva aggiornato il suo modello e aveva interpretato i dati con una prospettiva ormai superata.

Questo è anche un esempio di come l’evoluzione tecnologica abbia modellato e continui a modellare la nostra comprensione neuroscientifica della mente, offrendo nuove prospettive e nuovi strumenti per esplorare la complessità del cervello umano. In realtà c’è anche di più. È capitato più di una volta di prendere come punto di partenza la tecnologia per costruirci un modello di mente. La tecnologia, infatti, ha profondamente influenzato i modelli neuroscientifici della mente, offrendo non solo nuovi strumenti ma anche nuove metafore per comprendere la nostra natura mentale.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, per esempio, l’avvento dei computer ha portato alla nascita del modello della mente come elaboratore di informazioni, paragonando il cervello a un computer che processa input per generare output. Questo approccio ha favorito lo sviluppo delle scienze cognitive, enfatizzando processi come memoria, attenzione e linguaggio. Oggi è decisamente superato, ma è indubbio che la presenza del computer abbia fornito a sua volta nuove metafore mentali. Un fenomeno molto simile lo possiamo osservare anche ai giorni nostri: l’avanzamento dell’intelligenza artificiale ha portato allo sviluppo delle reti neurali artificiali, modelli computazionali ispirati alla struttura e al funzionamento del cervello umano; queste reti sono composte da nodi interconnessi, detti neuroni artificiali, organizzati in strati che elaborano informazioni in modo parallelo e distribuito. Questa tecnologia ha a sua volta influenzato la formulazione di un modello connessionista della mente, secondo il quale i processi cognitivi emergono da interazioni complesse tra neuroni interconnessi, piuttosto che da operazioni sequenziali e lineari.

Anche per questa retta, la netta distinzione tra ciò che è squisitamente mentale e ciò che è esclusivamente tecnologico diventa estremamente difficile da indicare. In questo quadro, insomma, la tecnologia non è un’aggiunta al corpo o alla mente, ma un elemento del sistema stesso che ridefinisce che cosa significa essere umani. La fusione corpo-mente-tecnologia, quindi, non è solo un evento tecnologico, ma un processo ontologico che rimodella costantemente il nostro essere nel mondo.

Siamo passati attraverso lo sviluppo di strumenti motori, sensoriali e cerebrali e ora abbiamo per le mani strumenti che sono ontologici. Questo non significa che anche le nicchie evolutive precedenti non abbiano ridefinito la nostra natura umana, tutt’altro. Piuttosto, si vuole porre l’accento sulla maturità della domanda nel momento presente. È oggi che l’architettura evolutiva raggiunta ci sollecita e ci mette sul piatto nuove e vecchie domande sulle caratteristiche fondamentali dell’umano e della realtà.

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Dall’alba dei tempi la tecnologia che l’uomo ha inventato non ha mimato l’umano. L’intento era proprio l’opposto: estendere le nostre capacità e competenze per meglio adattarci all’ambiente. E questo è ancora vero. Anche l’intelligenza artificiale simula alcune nostre funzioni mentali ma le esercita in un modo costitutivamente differente dal nostro. Pur mantenendo questa complementarità, la nicchia evolutiva corrente sfuma le distinzioni tra ciò che è sempre stato considerato tipicamente umano o meno, avvicina la tecnologia portandola sotto la nostra pelle, connette il nostro corpo con i nostri ambienti fisici non-ecologici, offre statuto di realtà ad ambienti non fisici, supporta processi mentali che prima assolvevamo in autonomia.

Come scrivevano Luca de Biase e Telmo Pievani ormai già diversi anni fa, la narrazione che facciamo della nicchia evolutiva in cui viviamo innesca una traiettoria futura. Le domande che apriamo nel presente fanno già parte del futuro. E la fusione di corpo-mente-ambiente esemplifica proprio questo. Ciò che accade nell’ambiente non è disgiunto da ciò che immaginiamo nella nostra mente e ciò che immaginiamo non è separabile dalle esperienze che accumuliamo. Questo vale per il passato, per il presente e per il futuro.

Quello che questo saggio vuole aggiungere è che mai come adesso abbiamo bisogno di una teoria ontologica del cambiamento tecnologico. Mai come adesso le discipline che studiano il corpo, la mente e la tecnica dell’uomo devono accogliere il quesito ontologico del nostro tempo. Mai come adesso tra gli schemi che regolano lo sviluppo tecnologico si vede necessaria una capacità meta-riflessiva dell’uomo che possa abbracciare il processo che siamo.

Ridefinire l’umano non significa abdicare alla nostra singolarità o unicità, quanto riconoscere che l’umano «diventa», non «è». Nella nicchia degli strumenti ontologici non si cerca né di essere più taglienti, né di vedere più lontano o di ricordare di più: si cerca di comprendere profondamente la nostra natura in continua evoluzione, non cercando di delineare i confini dell’umano ma di tracciare tutto quello in cui possiamo cambiare.