Moriani, KME: «Per essere sostenibili non basta più la sola compliance»
Quelli messi nero su bianco dall’Agenda 2030 sono obiettivi cui le imprese non possono più sottrarsi: la sostenibilità. Sottoscritto il 25 settembre 2015 dai Governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite e approvato dall’Assemblea Generale dell’ONU, il programma d’azione dell’Agenda prevede 169 target da raggiungere in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale. «Quello della […] L'articolo Moriani, KME: «Per essere sostenibili non basta più la sola compliance» proviene da ilBollettino.

Quelli messi nero su bianco dall’Agenda 2030 sono obiettivi cui le imprese non possono più sottrarsi: la sostenibilità. Sottoscritto il 25 settembre 2015 dai Governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite e approvato dall’Assemblea Generale dell’ONU, il programma d’azione dell’Agenda prevede 169 target da raggiungere in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale. «Quello della sostenibilità è un traguardo che non può più essere relegato alla compliance» dice Diva Moriani, Executive Chairman and Chief of Trasformation Office presso KME.
«La situazione di scenario è quella che stiamo vedendo in America. È lì che, nel bene e nel male, dobbiamo guardare, perché gli Stati Uniti sono il nostro faro, ispiratore di tutto il mondo occidentale. Oltreoceano si erano raggiunti degli eccessi, soprattutto nell’ambito del pensiero woke, che si è forse spinto troppo oltre. Questo spiega – nel senso che porta a comprendere – la reazione odierna, che deriva dalla pancia degli americani e arriva agli estremismi di Trump».

È preoccupata?
«Non nascondo una certa apprensione. Anche se la verità è che bisogna vedere quanto ci sia di reale in quelli che si rivelano poi solo annunci. Nel corso del primo mandato di Trump avevamo assistito a una serie di proclami anche in relazione alla fuoriuscita dagli Accordi di Parigi. Poi ci informiamo e scopriamo che in realtà le masse destinate ai fondi ESG stanno aumentando. La Corporate America per fortuna tende a non seguire gli umori della Casa Bianca, bensì quello che chiede il Mercato».
Cambia qualcosa con il secondo mandato del tycoon?
«Questa volta l’aggressività e l’ignoranza al potere sono stati tali da piegare, con il ricatto, anche il mondo delle imprese americane, che si sono affrettate ad annunciare l’abbandono di molte pratiche di sostenibilità soprattutto nell’ambito Diversity, Equity and Inclusion (DEI), ma non solo, pur di poter continuare a lavorare con il governo americano o comunque non inimicarselo. Staremo a vedere, spero siano solo annunci di facciata, tali da non intaccare un processo culturale profondo».
A quali rischi andiamo incontro?
«Di annullare tutto ciò che è stato fatto finora. Però c’è un dato positivo ed è che l’Europa ha reagito bene. Da noi si era esagerato sul piano della regolamentazione, con richieste eccessive che porterebbero qualunque organizzazione a ritenere insopportabili le questioni relative alla sostenibilità e anche poco efficaci».

Fa riferimento alla Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), sulla rendicontazione di sostenibilità?
«Esatto, trovo che lì ci sia stato un appesantimento troppo gravoso soprattutto per le PMI, parte importante del tessuto economico dell’Unione Europea. In generale è come se ci fosse stato un atteggiamento impositivo, punitivo. Si è stabilito ad esempio lo stop al motore endotermico, con multe in caso di superamento delle quote di produzione. Senza poi fare analisi sulle possibili conseguenze collaterali negative, come si è ad esempio verificato nel caso del crollo dell’industria tedesca».
Adesso però c’è un aggiustamento in corso…
«La Commissione europea ha predisposto una serie di proposte con l’obiettivo di realizzare uno sforzo di semplificazione riguardo alla normativa sulla sostenibilità che è senza precedenti, riducendo gli oneri amministrativi di almeno il 25% e quelli per le PMI di almeno il 35% entro la fine del presente mandato».
Lo ritiene sufficiente?
«Sarebbe stato certamente preferibile rendere meno gravosi per tutti gli adempimenti previsti dalla CSRD, o ancora meglio sostituire gli obblighi con incentivi che incoraggino comportamenti positivi. Perché creare una cultura della sostenibilità è diverso dall’imporre il rispetto della sostenibilità».
Cosa pensa invece del Clean Industrial Deal, il nuovo pacchetto di misure che dovrebbe mobilitare oltre 100 miliardi di euro?
«Ecco che finalmente si prova a mettere a terra a livello europeo una strategia seria per affrontare temi cruciali: decarbonizzazione dell’industria energetica e materie prime critiche. E lo si fa attraverso la creazione di una banca dedicata, che potrà contare su una dote cospicua».
Qual è il punto di forza del piano, secondo lei?
«Il fatto che si crei un meccanismo che consente l’acquisto congiunto da parte delle aziende interessate, oltreché contratti a lungo termine. Poi ci sono soluzioni di efficienza energetica, nonché il completamento dell’Unione Europea dell’Energia, con l’obiettivo di riportare i costi energetici a livelli competitivi».

Siamo di fronte a una nuova frontiera della sostenibilità?
«Non se ne può più prescindere, per una questione di strategia aziendale. Non si tratta più solamente di ridurre le emissioni. Questa ormai è la base di partenza. La sostenibilità è diventata un agente di cambiamento, qualcosa che orienta le agende delle organizzazioni, che devono adottare un bisogno sociale e ambientale elevandolo a mission».
Ne va della reputazione stessa dell’azienda
«Senz’altro. L’impatto principale è sulla brand identity, ma anche su cosa pensano gli stakeholder. E poi si rafforza anche l’attaccamento dei dipendenti».
Questo vale anche per le piccole e medie imprese?
«Per quanto piccole siano, adesso non c’è più spazio per fare le cose male. Ormai sono il Mercato e il consumatore a chiederti un certo tipo di comportamento positivo. Per non parlare delle banche: da tempo hanno introdotto riduzioni nei costi di finanziamento per le aziende che adottano comportamenti positivi quanto alla sostenibilità. E giustamente, aggiungerei, visto che quei comportamenti riducono rischi importanti e proiettano l’azienda in un ecosistema più sicuro e apprezzato dalle nuove generazioni di consumatori. È molto importante il ruolo delle banche, così come quello di tutti gli operatori finanziari, come volano di questa trasformazione epocale. E poi spesso si dimentica un altro elemento».
Quale?
«Quello dell’economia circolare, che è un settore in cui proprio le PMI italiane primeggiano. Ricoprono il secondo posto in Europa nella registrazione di brevetti per soluzioni che si rifanno alla circolarità. Sul totale, la metà provengono dalle PMI, perché alla fine la sostenibilità conviene. Anche nel riutilizzo degli scarti, banalmente, c’è un ritorno immediato. Siamo di fronte a uno dei casi tipici in cui una disciplina positiva per l’ambiente porta vantaggi anche per il conto economico dell’azienda».
In generale, a essere sostenibili, si guadagna?
«Certo. Le pratiche di economia circolare adottate dalle imprese, in generale tendono ad allungare la durata d’uso di prodotti o componenti attraverso tecnologie di recupero dedicate. Sono una fonte di maggior profitto, efficienza e cash flow per l’azienda. C’è anche una riduzione del rischio di interruzione della catena del valore, soprattutto in periodi contraddistinti da forti shock esogeni legati alle materie prime».
Può portarci qualche esempio concreto?
«In KME, che opera nel settore della trasformazione del rame, a seguito della supply chain disruption seguita al lockdown sono stati intensificati gli sforzi tecnologici metallurgici per incrementare nella produzione la percentuale di utilizzo di rottami verso la materia primaria in arrivo dalle miniere. Non solo, ci si è sforzati di sfruttarne di sempre meno puri. I vantaggi economici sono stati importanti e si è avuto un minor impatto ambientale».

È un settore su cui scommettere?
«Sì, parlando di politica economica per il nostro Paese. Mi concentrerei sulla copertura completa, dalla materia prima-seconda all’energia. Rimuovendo tutti i vincoli legislativi e amministrativi che oggi frenano a livello centrale, ma ancor più a livello locale, il suo vero e definitivo sviluppo».

Le variabili ESG non possono insomma essere considerate una bolla destinata a sgonfiarsi…
«Non è pensabile che la sostenibilità non sia oggi situata al centro delle pratiche aziendali. Ci sono fatti molto concreti che lo fanno capire. Il riscaldamento globale ad esempio, che non è più solo uno spauracchio lontano, ma presenta annualmente il conto con eventi atmosferici sempre più impegnativi. Si pensi poi alle assicurazioni: anche queste hanno un conto economico impattato annualmente da eventi catastrofali crescenti. Come possono quindi anche solo pensare le compagnie di non mettere la sostenibilità ambientale al centro delle proprie strategie e di quelle dei propri clienti o delle società in cui investono?».
Insomma, la sostenibilità va vista nei termini di capacità dell’impresa di rispondere ai bisogni della società, di risolvere problemi sociali complessi?
«È un modo di intenderla. Le aziende sono le organizzazioni deputate a farlo in quanto meglio equipaggiata per affrontare problemi complessi. Possiedono risorse, competenze organizzative, capacità di innovazione e soprattutto la possibilità di generare impatto su larga scala. Sono reti di talento e capitale, alimentate da un dinamismo che può trasformare problemi in opportunità e bisogni in soluzioni. Lo abbiamo visto durante il lockdown».

E allo stesso tempo torniamo al punto di cui parlavamo, si genera profitto
«Perché quel bisogno può diventare un motore di valore condiviso all’interno dell’azienda, una strategia vincente che apre a nuove opportunità di mercato, rafforza la propria reputazione e fidelizza clienti e dipendenti. Cioè una delle scelte più intelligenti che un’azienda possa fare».©