Misiani (Pd) a TPI: “Coi dazi di Trump l’Italia rischia la recessione. Meloni? Vuole tenere i salari bassi”

Senatore Misiani, la Lega spinge per un nuovo provvedimento di rottamazione delle cartelle esattoriali, la Rottamazione quinquies: si parla di una rateizzazione decennale. Che ne pensa? «Parliamo di cose serie, per favore. Questa è solo propaganda». Pensa che la misura non andrà in porto? «Diciamo che ci sono molti buoni motivi per essere scettici. Sarebbe […]

Apr 1, 2025 - 08:40
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Misiani (Pd) a TPI: “Coi dazi di Trump l’Italia rischia la recessione. Meloni? Vuole tenere i salari bassi”

Senatore Misiani, la Lega spinge per un nuovo provvedimento di rottamazione delle cartelle esattoriali, la Rottamazione quinquies: si parla di una rateizzazione decennale. Che ne pensa?
«Parliamo di cose serie, per favore. Questa è solo propaganda».

Pensa che la misura non andrà in porto?
«Diciamo che ci sono molti buoni motivi per essere scettici. Sarebbe un provvedimento costosissimo, che richiederebbe coperture per oltre 10 miliardi di euro in tre anni, di cui 5 miliardi solo nel 2025, ma i soldi non ci sono. Fra l’altro le rottamazioni hanno sempre prodotto molte meno entrate rispetto alle previsioni iniziali: quelle precedenti avrebbero dovuto far incassare allo Stato complessivamente 70 miliardi di euro, ma ne sono entrati meno di 32… Di rottamazione in rottamazione, si rischia di indebolire il rapporto di fiducia tra lo Stato e i contribuenti che fanno il loro dovere, rapporto peraltro già ampiamente compromesso dai tanti condoni varati da questo governo».

Oltre al nodo delle coperture, la Lega deve vedersela con le resistenze di Forza Italia, che insiste invece per tagliare l’Irpef al ceto medio.
«Tra Lega e Forza Italia è in corso una guerra di posizionamento politico all’interno della maggioranza. Non a caso spicca il silenzio glaciale di Fratelli d’Italia…».

Le ultime due leggi di bilancio sono state imperniate sul taglio del cuneo fiscale e sulla rimodulazione delle aliquote Irpef. Cosa doveva fare di diverso il governo?
«Il taglio del cuneo va bene, chiedevamo tutti di renderlo strutturale. Per come è stato fatto, però, ha creato alcuni problemi per l’Irpef. Siamo molto più perplessi, invece, sull’accorpamento degli scaglioni Irpef, che ha impegnato una cifra molto alta – 5,5 miliardi di euro – a fronte di un beneficio quasi impercettibile perché spalmato su un’enorme quantità di contribuenti. Quei soldi era meglio destinarli alla Sanità».

Qual è dunque la linea del Pd in tema di tasse?
«Ci sono almeno due grandi nodi da affrontare. Primo: bisogna ridurre il carico su chi lavora e sulle imprese. Il nostro sistema è fortemente sbilanciato sulla rendita a danno dell’economia reale, e questo governo ha ulteriormente aumentato la pressione sulle imprese con l’abolizione dell’Ace (agevolazione che premiava chi reinveste gli utili in azienda, ndr), sostituita da due strumenti temporanei e molto più deboli. Noi vorremmo andare in direzione opposta, aiutando l’economia reale del nostro Paese».

E il secondo punto?
«La lotta all’evasione fiscale. I segnali che arrivano, al di là della propaganda del governo, indicano che il percorso di progressiva riduzione del tax gap registrato tra il 2016 e il 2021 potrebbe essersi interrotto. Del resto non poteva che essere così: fin dal suo insediamento, questo governo ha strizzato l’occhio a chi le tasse non le paga. Dalle misure di condono variamente denominate all’innalzamento del tetto sul contante, fino alla la Rottamazione quater».

Di lotta all’evasione fiscale in Italia si parla da decenni, ma i risultati sono stati piuttosto scarsi finora…
«Quando noi abbiamo introdotto la fatturazione elettronica, l’abbiamo ridotta da 108 a 84 miliardi di euro. Per combattere l’evasione bisogna digitalizzare: tracciabilità delle transazioni, interoperabilità delle banche dati… E poi investire in risorse umane: le agenzie fiscali hanno perso personale negli ultimi anni e occorre tornare ad assumere. L’evasione fiscale non è un destino ineluttabile: contrastandola, si potrebbero ricavare gli spazi di bilancio per finanziare alcuni servizi essenziali che sono in sofferenza. E, me lo faccia dire, anche per dare una mano agli investimenti. Questo governo ha aumentato le tasse sulle imprese e ha quasi azzerato i fondi per la politica industriale: stanno togliendo all’Italia che produce sia dal lato fiscale che dal lato della spesa. Poi qualcuno si domanda perché la produzione industriale cala da 24 mesi consecutivi…».

L’industria è in crisi in tutta Europa. Forse perché l’Ue ha badato troppo a regolare e troppo poco a fare politica industriale?
«Nella scorsa legislatura europea ci siamo dati obiettivi ambientali ambiziosi e sarebbe un errore rimetterli in discussione. Il punto è affiancarli con politiche adeguate per aiutare le imprese a decarbonizzarsi e a cogliere le opportunità della transizione verde e digitale».

Come si finanzia la politica industriale europea?
«Il bilancio europeo deve almeno raddoppiare. Bisogna fare nuovo debito comune e trovare nuove entrate proprie per l’Ue. Naturalmente gli Stati devono fare la loro parte, ma in modo coordinato, altrimenti non andiamo lontano. La competizione è tra grandi sistemi economici come Usa e Cina».

Al netto delle valutazioni di politica estera, la corsa al riarmo può servire a rilanciare l’industria europea?
«Difficile, se non si vincolano le spese aggiuntive a progetti comuni. Il rischio è che il Piano ReArm Europe si traduca in un rialzo dei prezzi dei sistemi d’arma e in un aumento dell’import dagli Usa. Non mi sembra una grande operazione. Fra l’altro, senza prevedere una parte di sovvenzioni europee, credo che buona parte di quegli 800 miliardi di euro rimarranno solo sulla carta…».

La Germania intanto ha sfoderato il bazooka. Merz ha portato una doppia rivoluzione: sul debito e sul riarmo. Che ne pensa?
«La cancellazione del freno al debito è una buona notizia per la Germania e per l’Europa, perché l’Ue ha bisogno della locomotiva economica tedesca e la Germania non riparte senza spesa pubblica aggiuntiva. Ma il riarmo su base nazionale è un errore, a maggior ragione il riarmo tedesco».

I dazi di Trump segnano la fine della globalizzazione?
«Di sicuro si sta aprendo una nuova fase. La globalizzazione era in fase di forte rallentamento già dal 2008, ma Trump sta dando il colpo di grazia a quel sistema basato sulla regolamentazione aperta degli scambi. Si accelererà il processo di regionalizzazione delle catene globali del valore. Ma la guerra commerciale impostata dalla Casa Bianca produrrà danni enormi. Sia per i consumatori americani sia per i Paesi esportatori, come l’Italia e la Germania».

Cosa rischia il nostro Paese?
«Per noi l’export verso gli Usa cuba circa 3 punti di Pil. Dazi al 25%, in una fase di crescita asfittica, rischiano di farci scivolare dritti verso la recessione».

Meloni dice che non dovremmo rispondere con contro-dazi.
«Davvero non capisco la logica di questa posizione».

Anche la Bce, però, ha detto che una rappresaglia dell’Ue potrebbe avere un effetto boomerang.
«Avremmo vari strumenti per impostare un negoziato assertivo con gli americani. Sui servizi, ad esempio, gli Usa sono in surplus strutturale nei confronti dell’Ue, dai social network all’intelligenza artificiale, fino ai servizi informatici finanziari. Arrivare al negoziato alzando le mani non mi sembra la scelta migliore».

Lo scorso 19 marzo, in audizione davanti al parlamento, l’ex premier Mario Draghi ha detto sostanzialmente che l’austerity ha fallito e che dobbiamo rilanciare la domanda interna alzando i salari. A molti è sembrata un’autocritica rivolta al Draghi presidente della Bce. Anche il Pd ha assecondato per anni il rigore…
«Credo sia stata un’apprezzabile riflessione autocritica nei confronti delle politiche che l’Europa ha messo in campo dopo la grande crisi finanziaria del 2008. Se la globalizzazione sta rallentando, non possiamo più basare il nostro modello di sviluppo solo sulle esportazioni: dobbiamo puntare sulla domanda interna. Questo significa fare scelte molto nette di redistribuzione dei redditi e di aumento dei salari».

Il Pd oggi sostiene il salario minimo legale. Perché non l’avete introdotto quando eravate al governo?
«Perché i sindacati erano contrari. Oggi la posizione di due sindacati confederali su tre è cambiata, e in parte è cambiata anche quella delle associazioni delle imprese, ma la destra non lo vuole perché difende gli interessi di quella parte del sistema produttivo che sottopaga i lavoratori: un modello di di sviluppo basato su salari bassi e compressione dei diritti dei lavoratori che ci porta verso la stagnazione».