Le Muse nella Notte di Giuseppe Fulcheri

Giuseppe Fulcheri, in Italia sei noto soprattutto come autore, musicista e compositore. Hai firmato brani per grandi interpreti come Mina, Riccardo Cocciante, Anna Oxa, Gianni Bella, Irama, hai collaborato e collabori con Mogol… Quanto di questo vissuto musicale c’è nel Fulcheri pittore, in mostra a Roma dal 15 maggio? C’è tanto. Anzi, forse c’è tutto. […] L'articolo Le Muse nella Notte di Giuseppe Fulcheri proviene da Economy Magazine.

Mag 9, 2025 - 17:22
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Le Muse nella Notte di Giuseppe Fulcheri

Giuseppe Fulcheri, in Italia sei noto soprattutto come autore, musicista e compositore. Hai firmato brani per grandi interpreti come Mina, Riccardo Cocciante, Anna Oxa, Gianni Bella, Irama, hai collaborato e collabori con Mogol… Quanto di questo vissuto musicale c’è nel Fulcheri pittore, in mostra a Roma dal 15 maggio?

C’è tanto. Anzi, forse c’è tutto. La musica è stata per anni il mio linguaggio primario, il mio mestiere, ma anche il mio rifugio, la mia compagnia più intima. E ho sempre lavorato molto con e per delle donne, senza volerlo, senza cercarlo: è successo. Mina, Alexia, Anna Oxa, Silvia Mezzanotte, ma anche tante giovani interpreti. E mi sono sempre sentito, nei loro confronti, una sorta di interprete a mia volta: del loro sguardo sul mondo, della loro sensibilità. Oggi, guardando le mie muse dipinte, mi rendo conto che non sono così diverse dalle canzoni che scrivevo: anche lì cercavo un volto, un dolore, una voce, una verità emotiva. Oggi la cerco nel colore, nella forma, nello sguardo. Solo che adesso, per dirlo, non uso più le parole: uso il blu, il seppia, il rosso. E forse è solo un altro modo per continuare a cantare.

Il passaggio americano è stato un punto di svolta anche nella tua espressione visiva. Perché Los Angeles? E cosa ha innescato questa deriva pittorica?

Los Angeles è stato un passaggio importante, ma anche difficile, faticoso. L’ho amata e odiata. È una città che ti mette davanti a te stesso senza sconti: smisurata, piena di promesse eppure distante, rarefatta, un po’ di plastica. Non ha quell’umanità che ti accoglie come in Italia. Ci sono stato per due anni, abbastanza da perdermi e ritrovarmi. Ero lì per la musica e per la scrittura, ma in un momento di silenzio – artistico e personale – ho ripreso a dipingere. Un po’ per gioco, un po’ per necessità. Da bambino ero balbuziente. E quando non riuscivo a parlare, disegnavo. Era il mio modo per farmi capire.
A Los Angeles è accaduto qualcosa di simile. Non capivo bene l’America, non mi sentivo capito. Allora ho preso i colori, i pennelli, e ho iniziato a raccontarmi così. È stato come ritrovare una parte di me che avevo lasciato indietro. E ho scoperto che quella parte voleva restare.

Si dice che artisti si nasca. Tu hai sempre avuto due strumenti: la musica e la pittura. Ma cos’è per te il talento?

Il talento è un dono, certo. Ognuno di noi ne ha almeno uno. Ma non basta averlo. Però è come un seme: se non lo innaffi, se non lo metti al sole, non cresce. Io credo che il talento sia un linguaggio personale che devi imparare a riconoscere. E a rispettare. Non sono bravo con le mani, ad esempio: se devo montare un mobile IKEA rischio l’esaurimento. Non sono in grado di appendere i miei quadri, piantare un chiodo nel muro è un’impresa, faccio dei buchi immensi, delle voragini, sono un disastro. Meglio una tela bianca, o un pianoforte. Il talento, per me, è anche un modo per ascoltarsi. Per tenersi vivi. E se lo usi bene, diventa anche un modo per raccontare qualcosa agli altri. Poi certo, serve anche l’ironia. Il talento va preso sul serio, ma non troppo. È un compagno di viaggio: ogni tanto ti porta in alto, ogni tanto ti mette in crisi. Ma non ti lascia mai davvero.

Parliamo di muse. Una tua musa personale?

Ho avuto molte muse, anche senza saperlo. Alcune mi hanno ispirato con la loro voce, altre con un gesto, un incontro, una parola detta o non detta. La mia grande amica Monica Scattini, attrice, è stata una musa vera. Ironica, libera, profonda. Mi manca tantissimo. Ma, più in generale, credo che ogni donna che ho incrociato – nella vita o nella mente – abbia lasciato una traccia. E poi sì, forse la mia musa è l’Arte stessa. È lei che torna sempre, anche quando la lasci da parte. È lei che ti sveglia la notte, che ti consola, che ti stanca e ti salva. L’arte è donna, non ho dubbi. E chi crea, anche se uomo, deve saper ascoltare il suo lato femminile. Non è debolezza: è profondità.

Il colore è la tua firma. Entra addirittura nella cornice. Perché?

Perché il colore è già un’emozione. Non ha bisogno di spiegazioni. Lo vedi e ti parla. Già la vita spesso è grigiore, almeno che le mie tele portino colori. Mi piacciono i contrasti netti, i campi cromatici pieni. Mi danno energia, mi danno ritmo. Le cornici, per me, non sono solo un contorno: sono parte del racconto. Le ho volute colorare una per una, con Giorgia, la mia compagna, che ha fatto un lavoro paziente e amorevole. Sono vestiti per le mie muse. E ogni musa ha il suo colore, la sua aura. La cornice lo estende nello spazio, lo amplifica. È un modo per dire: guarda, questa donna è qui. Non solo nel quadro, ma anche attorno a te.

144 tele. 12 muse per 12 colori. Il numero 12, qui, ha un valore simbolico?

Sì. Il 12 è un numero antico, pieno di significati. I mesi dell’anno, i segni zodiacali, gli apostoli, i battiti del tempo… E poi, come musicista, mi viene spontaneo dirlo: le note musicali sono 12, non 7. Quindi 12 muse per 12 colori e anche per 12 note. È come se ogni donna fosse un accordo, una tonalità. E 12 variazioni per ciascuna è come scrivere 12 canzoni sulla stessa musa, ma con occhi sempre nuovi. Non l’ho calcolato a tavolino. È venuto fuori così, naturalmente. E quando l’ho visto, ho sorriso: anche il caso, a volte, suona in armonia.

Hai insegnato poesia per musica al Conservatorio. Che rapporto c’è tra parola, musica e pittura?

Tutto è scrittura, se ci pensi. Cambiano gli strumenti, ma il gesto è lo stesso. Quando scrivo una canzone, cerco una melodia per un’emozione. Quando dipingo, cerco un colore per quello stesso sentimento. La pittura è silenziosa, ma dice tutto. Io credo che le arti non siano compartimenti stagni: si parlano tra loro. Anzi, a volte una risponde a una domanda che l’altra aveva lasciato in sospeso.

La pittura è ora il tuo mezzo espressivo più potente? O sarà solo una fase?

È una ripartenza, non una deviazione. La pittura è arrivata in un momento in cui avevo bisogno di un linguaggio più visivo, più immediato, più fisico. Non ho abbandonato la musica, anzi. Ma ora dipingere mi dà un respiro diverso. È come un’altra parte di me che finalmente può uscire. E poi, diciamolo: a 53 anni uno ha il diritto di cambiare pelle, no? O almeno di provarci.

Hai scelto la Galleria Pian de’ Giullari, un luogo fuori dagli schemi. Perché?

Perché mi somiglia. Non è una galleria convenzionale, non è asettica. È viva, vera, accogliente. Andrea Bottai è un amico di famiglia, un amico di sempre e per sempre. E Carlina è un’anima curiosa, intensa. Aggiungerei anche te, cara Diana, donna di grande  generosità e passione. Insieme hanno creato uno spazio dove l’arte può respirare. Lì mi sento a casa. E non è poco.

Vuoi chiudere tu questa conversazione?

Solo una cosa: venite a trovarmi alla mostra. Guardate i quadri e lasciatevi guardare da loro.

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