L’abuso d’ufficio è morto, ma il conflitto d’interessi è vivo e più urgente che mai
“Non è incostituzionale l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio”. Con questa formula asciutta, la Corte Costituzionale ha chiuso una stagione e ne ha aperta un’altra. Nonostante i dubbi espressi da ben 14 autorità giudiziarie – tra cui la Corte di Cassazione – la Consulta ha confermato la piena legittimità della legge 114/2024, che ha cancellato […] L'articolo L’abuso d’ufficio è morto, ma il conflitto d’interessi è vivo e più urgente che mai proviene da Il Fatto Quotidiano.

“Non è incostituzionale l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio”. Con questa formula asciutta, la Corte Costituzionale ha chiuso una stagione e ne ha aperta un’altra. Nonostante i dubbi espressi da ben 14 autorità giudiziarie – tra cui la Corte di Cassazione – la Consulta ha confermato la piena legittimità della legge 114/2024, che ha cancellato dal Codice penale il reato di abuso d’ufficio. La motivazione arriverà tra qualche settimana, ma l’impianto del comunicato ufficiale è già chiaro: nessun obbligo internazionale (nemmeno dalla Convenzione di Merida delle Nazioni Unite contro la corruzione) impone allo Stato italiano di mantenere il reato. Ergo, nessuna violazione costituzionale. Punto.
Eppure, quel punto non è un punto fermo. È un punto di domanda politico e giuridico che interpella la tenuta dello Stato di diritto. Perché il reato di abuso d’ufficio era sì imperfetto, forse addirittura tossico per l’eccessiva indeterminatezza. Ma era anche l’ultima soglia penale per sindacare comportamenti di cattiva amministrazione non riconducibili alla corruzione o al peculato. Era, nel bene e nel male, una sentinella dell’imparzialità. Adesso che quella sentinella è stata congedata, chi presidierà la frontiera della legalità amministrativa? Non la Corte dei Conti, che si vuole indebolire nei poteri di controllo. Non l’Anac, progressivamente spogliata di incisività. Non i pubblici ministeri, privati di uno strumento giuridico duttile (forse troppo) per far luce su favoritismi e abusi senza scambio.
Tuttavia, un criterio guida esiste. E può, anzi deve, tornare al centro: il conflitto di interessi. Il conflitto d’interessi, però, non è un concetto morale. È una categoria giuridica precisa, scolpita nell’art. 6-bis della legge 241/1990: “Il responsabile del procedimento ha l’obbligo di astenersi in caso di conflitto di interessi, anche potenziale”. Lì dove l’abuso d’ufficio puniva l’atto arbitrario “in violazione di legge” con “intenzionale danno o vantaggio”, il conflitto di interessi intercetta il cuore dell’incompatibilità etica tra interesse personale e funzione pubblica. Non serve più dimostrare l’intenzione di danneggiare qualcuno o favorire qualcun altro. Basta che vi sia una sovrapposizione tra chi decide e chi può trarre vantaggio dalla decisione.
Questa clausola è già azionabile in sede disciplinare, contabile e talvolta penale (quando si innesta in altri reati). Ma, dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, essa può diventare una regola di giudizio trasversale, capace di sorreggere controlli pubblici e responsabilità individuali. Se un sindaco assegna appalti a una società legata al fratello, se un dirigente autorizza pratiche edilizie in una zona dove ha interessi patrimoniali, se un funzionario facilita una promozione in cambio di vantaggi personali (anche non patrimoniali), la rilevanza del conflitto d’interessi resta intatta. E non potrà essere archiviata con l’abolizione dell’art. 323 c.p.
Insomma, dopo il penale, viene il sistema. O il vuoto. C’è chi esulta per la “liberazione” dell’amministrazione dall’abuso d’ufficio. E chi paventa un far west decisionale senza sanzioni. Entrambi hanno torto se pensano che tutto si giochi sul campo del penale. La vera sfida è ricostruire un sistema di responsabilità pubblica che non sia solo sanzionatorio ma anche preventivo, coerente, leggibile. L’architrave di questo sistema, oggi, non può che essere la trasparenza degli interessi. Solo se il cittadino può sapere chi decide, per conto di chi e con quali relazioni di contesto, allora si potrà parlare di buon andamento e imparzialità (art. 97 Cost.).
Non è un’utopia. È una necessità democratica perché la responsabilità vive nei dettagli. In un Paese dove la criminalizzazione dell’amministrazione è stata spesso usata come alibi per l’inazione, è comprensibile l’intento di delimitare meglio i confini del penale. Ma se si toglie la sanzione, bisogna rafforzare la prevenzione. Se si abolisce un reato, bisogna costruire strumenti di vigilanza più raffinati. Se si rifiuta l’idea di “giudici contro la politica”, allora si deve accettare l’idea di politici sotto controllo. Anche solo da parte dell’opinione pubblica.
Ecco perché il conflitto di interessi non è solo un concetto giuridico. È una lente: per giudicare l’etica del potere. Per capire chi fa cosa, per chi. E perché. Oggi più che mai, dopo la fine dell’abuso d’ufficio, è questa la domanda che dobbiamo imparare a porre. E a pretendere che qualcuno risponda.
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