La sentenza della Consulta: "Abolire l’abuso d’ufficio non è incostituzionale"
I giudici bocciano 14 ricorsi contro la cancellazione del reato. Il ministro Nordio: "Ora basta insinuazioni e strumentalizzazioni".

La Corte costituzionale ha stabilito che l’abrogazione dell’abuso d’ufficio non è incostituzionale. Una sentenza che sotterra mesi e mesi di crociata delle opposizioni contro la riforma varata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ma fa restare in piedi, in qualche modo, un "vulnus" che riguarda l’Italia e la Convenzione Onu. Nei mesi scorsi, infatti, la Cassazione e 13 giudici di merito avevano ipotizzato che la cancellazione dell’articolo 323 del Codice penale fosse in contrasto con la Convenzione Onu di Merida contro la corruzione, ratificata dall’Italia nel 2009, e che quindi la cancellazione del reato violasse l’articolo 117 della Costituzione sull’obbligo del nostro Paese di rispettare i vincoli internazionali. La Corte,invece, "ha dichiarato infondate tali questioni, ritenendo che dalla Convenzione non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso d’ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale".
Soddisfazione, ovviamente, da parte del Guardasigilli. La sentenza "ha confermato – ha detto Nordio – quanto sostenuto a più riprese in ordine alla compatibilità dell’abrogazione del reato di abuso di ufficio con gli obblighi internazionali. Mi rammarica che parti della magistratura e delle opposizioni abbiano insinuato una volontà politica di opporsi agli obblighi derivanti dalla convenzione di Merida. Auspico che nel futuro cessino queste strumentalizzazioni, che non giovano all’immagine del nostro Paese e tantomeno all’efficacia dell’amministrazione della giustizia".
Quella sull’abuso d’ufficio è la decisione più importante adottata dalla Consulta dopo l’elezione dei quattro giudici mancanti da parte del Parlamento: Francesco Saverio Marini, ex consigliere giuridico di Giorgia Meloni, Roberto Cassinelli, avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia, Massimo Luciani, costituzionalista vicino al Pd, e Maria Alessandra Sandulli, professoressa individuata come profilo tecnico e bipartisan. L’articolo 19 della Convenzione di Merida, rubricato proprio "abuso d’ufficio", prevede che "ciascuno Stato-parte esamini l’adozione delle misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità". Una formulazione che ricalca, più o meno, quella esistente nel nostro Codice penale fino all’entrata in vigore della legge Nordio.
Secondo i giudici che si sono rivolti alla Consulta, da questa norma e dal complesso del trattato è ricavabile un cosiddetto obbligo di stand still, cioè di "non tornare indietro", per uno Stato che già preveda il reato nel proprio ordinamento: l’abrogazione decisa dal governo, quindi, violerebbe un impegno assunto dall’Italia in sede internazionale. Una tesi che però la Corte costituzionale ha respinto. Soddisfatto anche il deputato di Forza Italia Enrico Costa, uno dei principali fautori dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio (aveva pubblicato un dossier con le storie di 150 sindaci indagati e poi scagionati): "Per mesi e mesi la propaganda della sinistra, dell’Anm, dei forcaioli ha descritto l’abrogazione dell’abuso d’ufficio come un intervento incostituzionale, ci hanno descritto come complici dei criminali; la Corte costituzionale li ha smentiti. Hanno perso ogni credibilità sui temi della giustizia", ha attaccato. Le questioni di costituzionalità erano state sollevate in tutta Italia, da Bolzano a Catania. La prima era arrivata a settembre dal Tribunale di Firenze nell’ambito del processo in cui è (o meglio, ormai, era) imputata per abuso d’ufficio l’ex procuratrice aggiunta di Perugia Antonella Duchini, accusata di aver disposto un sequestro illegittimo per favorire un imprenditore indagato.