Ermal Meta: “La mia vita è sospesa tra due terre, ma Sanremo resta la mia casa”
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Ermal Meta si racconta al Corriere della Sera tra romanzi, nuove canzoni e un legame profondo con il Festival di Sanremo. «Il successo? Non è una gabbia, ma sulla vetta si respira meno»
«Da piccolo vivevo a lume di candela. Non potevamo ascoltare musica straniera. E oggi sono qui, con una canzone nuova e un romanzo che racconta l’oscurità». Ermal Meta è tornato. Con un brano, Ferma gli orologi, un tour nei teatri, e soprattutto con Le camelie invernali, il suo secondo romanzo in uscita il 13 maggio per La Nave di Teseo. Qui il link per l’acquisto del libro.
Ma nel cuore del cantautore, c’è sempre un posto speciale: «Sanremo? È la mia casa, l’unico posto dove ho pianto per la musica».
Ermal Meta racconta senza freni il suo legame con il palco dell’Ariston. «Se potessi fermare il tempo, fermerei tutto il 2017. È stato l’anno in cui il grande pubblico si è accorto di me. Dopo tanto tempo passato a scrivere nell’ombra, è stato come aprire le finestre e lasciar entrare il sole».
Una vetta raggiunta con sudore e umiltà, insieme a Fabrizio Moro: «Con lui abbiamo vinto Sanremo. Sembra sempre incazzato, ma è un tenerone. Ci lega il fatto che nessuno ci ha mai regalato niente. Ce lo siamo guadagnato tutto, passo dopo passo».
E quando si chiede a Ermal l’immagine più forte dei suoi Sanremo, non ha dubbi: «La telefonata di Franca Modugno dopo Amara terra mia. Era lì con suo figlio e mi disse: “Anche a Mimmo sarebbe piaciuta”. È stata l’unica volta in cui ho pianto per la musica».
Nel suo nuovo romanzo, Ermal Meta racconta di due giovani amici, Uksan e Samir, prigionieri di una legge antica, il Kanun, che regola la vendetta tra famiglie. «Una consuetudine scura, che prospera dove manca la cultura. Se non accendi una luce, l’oscurità vince».
Il racconto è anche un riflesso della sua identità: «Mi sento in patria in entrambi i Paesi, ma sono le patrie forse a non riconoscermi. In Italia sono troppo albanese. In Albania, mi dicono che sembro un italiano che parla bene l’albanese. Vivo sospeso tra le radici e le foglie da 30 anni».
E intanto, porta dentro ricordi nitidi di un’infanzia segnata dalla povertà e dalla dittatura: «Dopo la caduta del regime era caos totale. Si viveva secondo la legge del più forte. Ricordo le sere a lume di candela, perché la corrente saltava sempre».
Sul padre non dice molto. Solo una frase, che pesa più di un romanzo: «Non ricordo nemmeno che faccia avesse».
«Da bambino sognavo di scrivere canzoni, non è mai stata una gabbia. È un privilegio. Ma non ne conoscevo l’insidia». E l’insidia, spiega, arriva quando sei in alto: «In cima alla montagna l’aria è poca. Lo spazio è stretto. E quando la vetta è affollata, qualcuno cade giù».
Dalla vetta Ermal osserva anche le polemiche sulla musica di oggi. Autotune? «Non lo uso e non voglio usarlo. Ma chi sono io per dire a qualcuno cosa fare?». I testi violenti di certi rapper? «Raccontano la realtà. Se qualcuno li prende come esempio, è perché quella cultura ce l’ha già dentro. Non si cambia il mondo censurando una canzone, ma cambiando la realtà».
Ma l’Ermal più intenso e privato arriva alla fine dell’intervista. Con un gesto che vale più di mille parole: «Sto adottando con la mia compagna due ragazze di 17 e 18 anni. Quando le ho conosciute, mi hanno detto: “A noi non ci vuole nessuno”. Il cuore mi ha fatto crack, si è spaccato in mille pezzi».
Non si è ancora sposato, ma ha deciso di costruire una famiglia. «Sono maggiorenni, ma hanno bisogno d’amore, non di documenti. Le adozioni, a volte, non sono una formalità: sono una scelta di vita».
E mentre si divide tra musica, scrittura e un’inedita dimensione familiare, Ermal Meta guarda avanti. Magari, verso un altro Sanremo. «Non so se ci tornerò presto, ma quel palco è parte di me. È dove tutto ha preso senso. È dove la musica, per una volta, mi ha fatto piangere».
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