Come si muoverà la Germania in Europa
Le mosse di Ue e Germania in risposta a Trump. Conversazione di Stefano Feltri con l’ambasciatore Luigi Mattiolo, nuovo presidente italiano del think tank binazionale italo-tedesco Villa Vigoni

Le mosse di Ue e Germania in risposta a Trump. Conversazione di Stefano Feltri con l’ambasciatore Luigi Mattiolo, nuovo presidente italiano del think tank binazionale italo-tedesco Villa Vigoni
Luigi Mattiolo da gennaio 2025 è il nuovo presidente italiano di Villa Vigoni, il think tank binazionale italo-tedesco che sul lago di Como si occupa di curare un dialogo europeo, in particolare tra due Paesi fondatori, che non è mai stato più necessario.
L’ambasciatore Mattiolo ha alle spalle una carriera che lo rende l’osservatore più adatto per decifrare i grandi cambiamenti in corso sia in Europa che nel mondo i cui equilibri sono stati scossi dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.
Nei suoi 43 anni in diplomazia si è occupato molto di Unione europea e Nato, per il ministero degli Esteri è stato direttore generale per l’Unione europea, e poi ambasciatore in Turchia, in Germania, e infine consigliere diplomatico del presidente del Consiglio Mario Draghi, fino al 2022.
Ambasciatore Mattiolo, partiamo dalla Germania che ha lasciato nel 2021. Da allora tutto sembra essere cambiato. Era un’altra Germania, in un’altra Europa, c’era ancora Angela Merkel, c’erano vincoli di bilancio molto rigidi, e un’economia fondata sui rapporti con la Cina e sul gas russo a basso prezzo. Oggi come guarda a quella Germania? Che bilancio ne possiamo fare?
Sicuramente era un altro mondo. Nella Germania che ho conosciuto io sono accaduti due eventi chiave: uno di portata nazionale ma con rilievo europeo, l’altro di portata globale.
Il primo è stato la rinuncia di Angela Merkel, in quel Congresso della CDU di Amburgo del dicembre 2018, alla presidenza del partito: in un sistema come quello tedesco significa automaticamente la rinuncia a concorrere alle successive elezioni, poi tenutesi nel settembre del 2021 e vinte da Olaf Scholz (SPD).
È stato un momento particolare: da un lato, Merkel ha continuato a esercitare appieno i suoi poteri di Cancelliere, dall’altro si viveva già con molti interrogativi sul futuro, su come si sarebbe configurata la Germania, e su quale sarebbe stata l’eredità di Merkel.
Poi la guerra in Ucraina — e la conseguente scoperta (per alcuni, mentre per altri era già chiaro) del vero “volto” della Russia di Vladimir Putin — ha spinto a rimettere in discussione molte delle scelte ereditate dall’era Merkel, in particolare i rapporti privilegiati con Mosca, che erano stati coltivati anche nell’interesse dell’Europa.
Il secondo evento, di portata più devastante, è stata la pandemia. Nella mia esperienza, come in quella di tutti i colleghi diplomatici che si trovavano all’estero in quegli anni, si è creato uno spartiacque tra il “prima” e il “dopo” la pandemia.
E proprio la pandemia ha inciso in maniera decisiva sull’atteggiamento tedesco verso l’integrazione europea.
La Germania ha affrontato la pandemia contando sulla forza della sua struttura economica e amministrativa.
Noi in Italia avevamo poco più di 7.000 posti in terapia intensiva per circa 60 milioni di abitanti; la Germania, con circa 80 milioni di abitanti, ne aveva 28.000, quattro volte tanto.
Per questo ha potuto evitare lunghi lockdown nelle fabbriche o nelle scuole, illudendosi di poter proseguire l’attività. Ma poi le fabbriche hanno dovuto fermarsi comunque, a causa della mancanza di pezzi di ricambio da Paesi come l’Italia, che invece erano costretti a chiudere.
Questo problema ha rafforzato la consapevolezza, nell’opinione pubblica e tra i partiti e gli imprenditori tedeschi, che la Germania non agisce in un vuoto: è la maggiore potenza manifatturiera europea, ma è anche completamente integrata nel mercato unico.
Da qui il “cambio di paradigma”, ossia l’appoggio a forme di sostegno comuni per affrontare le conseguenze economiche e sociali della pandemia: in questo contesto si inseriscono il Recovery Fund e il Next Generation EU.
Ho dunque vissuto una Germania che si è dimostrata solidale con l’Italia e con altri Paesi in modo straordinario.
Ricordo, per esempio, l’operazione di trasporto di alcuni nostri malati in Germania, iniziativa partita da ambienti parlamentari tedeschi.
È stata una testimonianza forte della profondità dei legami tra i due Paesi, non solo in termini economici, ma anche sotto il profilo etico, morale e affettivo.
Che giudizio possiamo dare di quelle che si sono rivelate le scelte più controverse della strategia di Angela Merkel, cioè coltivare una qualche forma di rapporti con Putin e legarsi alla Russia per avere gas a prezzi contenuti?
I prezzi del gas sono andati innanzitutto a beneficio della Germania, ma non esclusivamente: anche l’Italia, per anni, ha beneficiato di contratti energetici a lungo termine vantaggiosi con la Russia.
Da un punto di vista più geopolitico, è inevitabile che la Germania — e ciò ha favorito anche altri Paesi europei — coltivasse rapporti privilegiati con Mosca.
Merkel, in questo, ha un vissuto personale che l’ha aiutata a conoscere in modo diretto la Russia e la sua cultura, ma tutto ciò si è sempre accompagnato a una fortissima fede transatlantica.
Nel Congresso di Amburgo che ricordavo, nel suo discorso di commiato dalla presidenza della CDU, Merkel ha reso omaggio a George H. W. Bush, ricordando che senza la sua apertura di credito verso Helmut Kohl non ci sarebbe stata una riunificazione tedesca così pacifica, con il ritiro delle truppe sovietiche.
Dunque, Merkel era senz’altro consapevole dei pericoli che la Russia poteva rappresentare, come gli eventi di oggi confermano.
L’errore strategico è stato l’eccesso di dipendenza. Oggi parliamo della necessità di avere a che fare con “reliable vendor”, dei pericoli che derivano dall’interruzione delle catene di valore: concetti che allora non erano nell’armamentario ideologico dei leader, forse neppure dell’opinione pubblica.
Stabilire una dipendenza eccessiva con un partner internazionale è una scelta delicatissima. Probabilmente Merkel e altri leader dell’epoca erano più tranquilli su questo fronte, mentre oggi vediamo chiaramente come il mondo sia cambiato.
Il cambio di linea tedesco sul debito, con il grande piano proposto dal cancelliere entrante Friedrich Merz, è una scelta tattica dettata da una difficile congiuntura economica in Germania o il prodotto delle nuove consapevolezze sui rapporti con il resto dell’Europa maturati durante e dopo la pandemia?
Credo faccia parte di una nuova consapevolezza: in un mondo interconnesso e interdipendente, lo stesso concetto di sovranità va rivisto.
Se guardiamo agli Stati Uniti, vediamo che quando parlano di “sovranità” intendono la capacità di decidere autonomamente su uno spazio geografico che va oltre i loro confini.
La Russia lo ha sempre fatto, sin dai tempi degli zar. Nel caso della Germania, mi pare consolidata la convinzione che il suo spazio geostrategico superi i confini nazionali e coincida almeno con l’Unione europea, e a seconda delle circostanze si possa allargare anche ad altri partner.
Spesso la Germania è stata descritta come un “impero riluttante”, per ragioni storiche comprensibili.
Oggi mi sembra che questo pudore stia venendo meno e che, con l’emergere di nuove leadership, la Germania si prepari a riconoscere più apertamente il proprio ruolo di “major player” nel continente.
Come si inserisce in questo scenario l’ascesa di Alternative für Deutschland (AfD)? È un effetto del cambiamento nell’approccio verso l’Europa? È dovuto soprattutto alla crisi migratoria e alla apertura decisa da Angela Merkel ai rifugiati siriani dieci anni fa? O riguarda questioni irrisolte dell’integrazione tra Est e Ovest?
È il prodotto di tutti questi fattori, e forse anche di altri.
Se dovessi stabilire un ordine di importanza, metterei al primo posto la reazione alla politica migratoria molto generosa adottata dalla Germania dal 2015 in poi, quando la Merkel aprì le porte a circa un milione di rifugiati siriani con il famoso slogan “Ce la faremo”.
In parte ce l’hanno fatta, almeno organizzando l’accoglienza, l’istruzione, i sussidi e la formazione professionale per i nuovi arrivati. Ma poi ci sono stati episodi terroristici che, per quanto isolati, hanno pesato molto sull’opinione pubblica tedesca, alimentando la crescita dell’AfD.
Un secondo fattore è il persistente divario di sviluppo tra Est e Ovest: alcuni Länder dell’Est, ex Repubblica Democratica Tedesca, hanno vissuto una frustrazione profonda, poiché molte imprese sono state chiuse e intere generazioni si sono sentite escluse dai processi produttivi di una Germania unificata. Inoltre, in alcuni settori giovanili, serpeggia una critica alla globalizzazione, con oscillazioni di voto tra la sinistra radicale e l’AfD.
Infine, c’è una componente di elettorato, più ridotta ma rumorosa, diffidente verso l’integrazione europea e timorosa che la forza economica tedesca venga “diluita”.
Sono gli stessi ambienti che ai tempi del quantitative easing di Mario Draghi temevano per il valore dei bund tedeschi e la solidità del sistema pensionistico.
Passando ora alla dimensione europea, lei che conosce bene la “macchina” di Bruxelles, come vede il futuro dell’Unione in un contesto geopolitico tanto mutato?
C’è chi prevede la fine dell’UE, ritenendola inadeguata a un mondo multipolare, e chi invece sostiene che questa crisi spingerà a maggiori integrazione e coordinamento, come è già successo in passato, secondo la ben nota teoria di Jean Monnet in base alla quale l’integrazione europea procede soprattutto nelle crisi.
Tendo a essere cautamente ottimista.
Mi preoccupa che molti analisti autorevoli “intonino il requiem” dell’Unione europea. Io credo che l’Europa abbia spesso trovato la forza di progredire proprio nei momenti di crisi, come una bicicletta che, se smette di pedalare, cade.
È successo con la pandemia, ad esempio, mentre con la crisi finanziaria seguita a Lehman Brothers l’UE è sembrata muoversi più a rilento e alcune politiche — pensiamo alla rigidità del Patto di Stabilità — hanno avuto effetti prociclici, aggravando le difficoltà nei Paesi più indebitati.
Oggi, comunque, l’Unione ha iniziato concretamente ad affrontare il tema della difesa comune.
Non mi scandalizza che non si sia subito lanciato un debito comune per la difesa, perché né i Paesi con spazio fiscale ridotto (come l’Italia e più di recente la Francia) né quelli più forti (come la Germania) hanno al momento un interesse immediato a un passo del genere.
Quel che conta ora è evitare duplicazioni e ottimizzare le risorse, proseguendo sulla strada della transizione digitale, dell’unione dei mercati dei capitali, della transizione ecologica (pur rivedendo qualche scadenza, se necessario).
Non dimentichiamo che siamo 450 milioni di consumatori, il terzo Pil del mondo, anche se risentiamo del calo demografico.
In questo contesto, risulta fondamentale una crescente collaborazione tra Unione Europea e Nato, a maggior ragione se consideriamo che gli Stati Uniti chiedono da tempo una più equa condivisione delle spese.
Il disimpegno americano in Europa non è un’invenzione di Trump, già ai tempi di Barack Obama si parlava di ripartire in modo diverso gli oneri.
A noi serve un dispositivo di difesa euro-atlantico che copra anche Paesi fuori dall’UE, come il Regno Unito e il Canada, e che rassicuri gli Stati Uniti sul fatto che, anche per loro, difendere l’Europa continua a essere vantaggioso.
Lei è stato anche ambasciatore in Turchia. Come valuta la questione dell’allargamento dell’UE, considerando che si parla ora di Ucraina, Moldova e Balcani, mentre la Turchia resta un eterno “candidato mancato”? E come interpreta l’attuale deriva interna turca, con arresti di figure di opposizione al presidente Erdogan, come il sindaco di Istanbul?
Sylvie Goulard, vice presidente IEP@BU, in un libro recente – Grande da morire (Il Mulino)- sostiene che un allargamento ulteriore dell’Ue in assenza di profonde modifiche interne potrebbe essere letale all’intero progetto comunitario.
Sylvie Goulard ha ragione quando dice che l’UE, se si allarga senza riformare la propria governance, rischia molto. Già alla fine degli anni ’80 si discuteva se fosse meglio “approfondire” prima di “allargare”.
L’allargamento del 2004 ai Paesi dell’Est è stato enorme e quel modello di negoziati lunghissimi si applica ancora ai Balcani, per quanto mi auguri che prima o poi riescano a entrare.
La Turchia è la grande delusa: era associata all’UE sin dagli anni ’60 e ha ricevuto lo status di candidato come “contentino” dopo l’allargamento del 2004, quando vide entrare nell’Unione Paesi che un tempo facevano parte dell’Impero Ottomano. Per i turchi è stata una frustrazione notevole.
Certo, con i meccanismi decisionali attuali, l’adesione della Turchia creerebbe grandi squilibri (avrebbe la delegazione più numerosa al Parlamento europeo), ma l’UE non ha saputo sfruttare a pieno il processo di adesione per promuovere standard e riforme in Turchia, su temi fondamentali come i diritti umani, la lotta alla corruzione o la tutela dei consumatori.
Nei primi anni 2000, l’islam politico moderato di Erdogan sembrava un modello paragonabile a certi partiti centristi di ispirazione religiosa europei. Poi è emersa la deriva autoritaria, dovuta anche a tensioni con il PKK, al timore ricorrente di una possibile nascita di uno Stato curdo ai confini turchi e, in generale, all’uso di una propaganda che accusava l’Europa di “islamofobia” per il mancato ingresso di Ankara nell’UE.
Ogni volta che si avvicinano scadenze elettorali, le ondate di repressione preventiva si accentuano: purtroppo è un dato di fatto.
Veniamo all’Italia, visto che lei è stato consigliere diplomatico del presidente del Consiglio Draghi. Come interpreta la posizione dell’attuale governo italiano di Giorgia Meloni, che vuole mantenere buoni rapporti sia con l’amministrazione Trump che con i partner europei, nonostante la frattura nelle relazioni transatlantiche? È una tattica per non scontentare nessuno o risponde a una strategia più ampia, magari rivela il tentativo di creare una “special relationship” con gli Stati Uniti al posto di quella che gli americani avevano con la Gran Bretagna?
Non credo che l’Italia voglia sostituire la Gran Bretagna come “special partner” degli Stati Uniti.
Gli americani hanno da sempre una lettura molto chiara dei rapporti di forza e guardano soprattutto a chi ha maggiore potenza industriale o militare.
Ciò detto, è possibile che vi siano tatticismi interni alla maggioranza di governo, ma credo anche che emerga una visione più strategica e realistica.
Ha ragione il governo italiano quando dice che la sicurezza europea, per ora e per lungo tempo, dipenderà in modo cruciale dal pilastro Nato, perché il gap tecnologico e militare con gli Stati Uniti resta enorme.
Ha ragione anche quando sottolinea che non basta aumentare il debito pubblico nazionale in un contesto di regole europee ancora rigide: occorre trovare un modo per condividere l’onere della difesa, perché se un Paese UE venisse attaccato, gli altri confinanti non sarebbero al sicuro.
È una posizione prudente, ma saggia.
Tuttavia, resta il tema dell’aumento delle spese per la difesa. È sostenibile per l’Italia restare sotto l’1,5% del Pil mentre, ad esempio, la Polonia si avvia verso il 5%?
Dovremo probabilmente aumentare queste spese, ma si potrebbe sfruttare il risparmio privato.
Non voglio essere cinico, ma se avessi patrimoni da investire, i consulenti finanziari probabilmente mi consiglierebbero di puntare su industrie della sicurezza e della difesa, visto l’andamento degli ultimi anni.
Inoltre, occorre ottimizzare le risorse a livello europeo, evitando duplicazioni di sistemi d’arma. Volendo, si potrebbe anche coinvolgere la filiera industriale ucraina, se offre soluzioni valide a costi ridotti.
Creare ulteriore debito pubblico in una fase in cui siamo già impegnati con il Next Generation EU e abbiamo davanti la transizione ecologica e digitale non è semplice.
Forse dovremmo rivedere il Patto di Stabilità, chiederci se parametri come il 3% del deficit abbiano ancora senso in un mondo molto diverso dagli anni ’90. Anche perché, nel frattempo, l’Europa ha perso fette di prosperità rispetto ad altri competitor globali, e questo è uno dei nodi centrali.
(Estratto da Appunti di Stefano Feltri)