Caffè, deforestazione e clima: cosa c’è davvero nella tua tazzina

La produzione di caffè incide su foreste, suoli e clima. Scopri come scegliere il caffè in modo più consapevole L'articolo Caffè, deforestazione e clima: cosa c’è davvero nella tua tazzina proviene da Valori.

Mag 12, 2025 - 06:54
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Caffè, deforestazione e clima: cosa c’è davvero nella tua tazzina

Sembra solo una tazzina di caffè. Ma dentro ci sono storie di foreste che spariscono, temperature che salgono e persone che lavorano senza tutele. Questo articolo fa parte di un mini-dossier che prova a guardare oltre l’aroma: per capire davvero cosa beviamo ogni mattina — e perché dovremmo farci qualche domanda in più.

Gli articoli del dossier:


Caffè, deforestazione e clima: cosa c’è davvero nella tua tazzina

«Col caffè non si risparmia. È pure la qualità scadente: questa fete ‘e scarrafone». La battuta è quella di un Luca Cupiello, appena sveglio, mentre sputa la bevanda che sua moglie Concetta, rea di aver riutilizzato fondi di vecchi caffè, gli ha portato a letto. È la primissima scena di Natale in casa Cupiello, la commedia che ha da un lato condensato, dall’altro canonizzato ciò che a Napoli è tradizione, e cosa non lo è. 

Da dove vengo io il caffè è un pezzo di identità culturale. Non sono di quei napoletani che ritengono di detenere la proprietà della tradizione e che etichetta come “non caffè” qualsiasi bevanda servano al di fuori del perimetro che va da Caserta a Salerno. Sono però tra le persone che, sì, ha un palato molto viziato. Un caffè che non abbia determinate caratteristiche – o che ne abbia delle altre – proprio non riesco a berlo. 

Il fatto è che, a prescindere dalla resa in tazza, in gran parte del nostro Paese si pensa la stessa cosa. Il caffè è un’abitudine mattutina irrinunciabile, chiude i pasti e spesso le conversazioni, ma è anche un’occasione di incontro. Può rappresentare diversi livelli di coinvolgimento o amicizia. «Prendiamoci un caffè», se ti voglio incontrare e ho bisogno di una scusa o se, al contrario, voglio potermi svincolare presto. «Ti offro un caffè», se ho avuto l’occasione fortuita o programmata di incontrarti e voglio mostrarti quanto mi ha fatto piacere. C’è sempre un buon motivo per bere un buon caffè. Eppure oggi mi tocca elencare le ragioni per cui, a volte, è meglio non prenderne troppi. O scegliere molto attentamente quali bere. 

La domanda globale di caffè cresce: quali sono le conseguenze ambientali

L’intera catena di filiera del caffè ha infatti una serie di gravi impatti ambientali e climatici. Ripercorrendo tutti i passaggi, dalla nascita delle drupe – i piccoli frutti simili alle ciliegie che contengono le due perle che diventeranno i chicchi di caffè – fino al suono familiare del gorgoglio della moka, ognuna delle fasi genera una serie di problemi che potremmo definire fisiologici di un’economia globalizzata e di un sistema economico basato sullo sfruttamento e sulla sovrapproduzione. 

Negli ultimi anni, però, il quadro si sta aggravando. Non si riesce a star dietro all’aumento esponenziale della domanda di caffè, che è ormai la seconda merce più commercializzata al mondo dopo il petrolio, con un mercato che vale quasi 140 miliardi di dollari. Se ne consumano ogni giorno 3,1 miliardi di tazzine in tutto il mondo e, entro il 2030, potrebbero essere 3,8 miliardi. Per ogni tazzina, le stime ci dicono che viene distrutto un centimetro quadrato di foresta pluviale. 

Coltivazione del caffè, deforestazione e suoli impoveriti

Per coltivare il caffè spesso si utilizzano sostanze chimiche, che degradano i terreni. Anche l’utilizzo di pesticidi deteriora il suolo. Spesso si tratta di sostanze vietate in molti Paesi, come il glifosato o il Terbufos, bandito in Europa ma legale in Brasile, che arriva nelle nostre tazzine direttamente dal sud America. 

Ma l’impatto macroscopico della produzione del caffè è sullo stato di salute delle foreste. La qualità di caffè più diffusa al mondo, per crescere, ha bisogno di tanto sole. E quindi si tagliano alberi. Anche se esistono piante di caffè in grado di crescere all’ombra, e la loro coltivazione potrebbe mitigare la deforestazione, queste ultime rendono almeno tre volte di meno. L’aumento vertiginoso della domanda degli ultimi due decenni ha comportato un progressivo attacco alle foreste pluviali, già in crisi per molti altri fattori. Se negli anni Cinquanta ricoprivano il 15% della superficie terrestre, oggi ne abbiamo perse più della metà. Per tutto il 2023 ne è scomparsa una superficie pari a 10 campi da calcio al minuto. Ed era una buona notizia, perché nel 2022 il tasso di deforestazione era più alto del 9%. 

Cosa succede quando scompaiono le foreste: gli effetti a catena

La deforestazione, che riguarda soprattutto Brasile e Vietnam, riduce la capacità del nostro Pianeta di assorbire CO2 e ha effetti a catena sugli ecosistemi. Riduce la biodiversità di flora e fauna, rende l’ambiente inadatto a ospitare molte specie. Quelle di predatori, per esempio, vedono una drastica riduzione del numero di esemplari: questo lascia spazio alla proliferazione di parassiti, che attaccano le piantagioni. La perdita di aree boschive riduce l’umidità e altera la composizione di suoli e foglie: i terreni sono meno protetti dal sole, e quindi più caldi e asciutti. Gli organismi che li abitano, dalle termiti ai nematodi, dai lombrichi ai funghi e batteri, perdono il loro equilibrio di coesistenza.

Dalla deforestazione deriva anche l’erosione del suolo, con la perdita di importanti componenti organiche e non. L’utilizzo di fertilizzanti rilascia nella terra sostanze pericolose come i nitrati, che si diffondono arrivando alle sorgenti d’acqua, riducono la presenza di ossigeno, ammazzano la vita acquatica. I terreni esposti al sole e al calore perdono densità, le particelle diventano più leggere e acqua e vento riescono a portarne via quantità maggiori. Aumenta così l’inquinamento atmosferico. 

Praticare una monocultura, in generale, toglie salute ai terreni perché ne altera il pH. I nutrienti naturalmente presenti nel suolo, senza una rotazione, non hanno il tempo di rigenerarsi. Senza contare i processi chimici di degradazione delle acque che derivano dallo scarico di rifiuti e dal deflusso dei fertilizzanti. I rifiuti sono un altro grande tema. La produzione del caffè prevede una fase preliminare in cui il frutto originario viene messo a bagno a fermentare e rilascia un residuo viscido, che viene scaricato nei vicini corsi d’acqua. Qui si decompone, consumando ossigeno, portando alla morte delle specie. E poi c’è la pratica, molto diffusa, dell’utilizzo di pesticidi. Il 57% di ogni chicco di caffè è costituito da scarti contaminanti. 

Emissioni, rifiuti, sprechi: l’intera filiera del caffè impatta sul clima

Questi dati riguardano solo le primissime fasi di produzione del caffè: quelle di coltivazione e raccolta. La catena di approvvigionamento del prodotto, però, è molto lunga e complessa. Dopo la raccolta c’è la lavorazione, la tostatura, la distribuzione. Il 68% dell’impatto climatico del caffè dipende dalla coltivazione e dalla lavorazione: oltre ai fertilizzanti già menzionati spesso un’ulteriore questione è quella dello spreco d’acqua. La coltivazione avviene soprattutto in regioni con climi tropicali o subtropicali: la pioggia  è fondamentale e, quando manca – sempre di più, a causa della crisi climatica – si usano metodi di irrigazione che però sono spesso inefficienti.

Lavorazione, essicazione, fermentazione e tostatura dei chicchi richiedono grandi quantità di energia e il processo è quasi interamente alimentato da combustibili fossili. Il trasporto rappresenta un’enorme catena globale e, per questo, ha un importante impatto climatico. La coltivazione avviene soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Da lì il caffè viene distribuito nei mercati di tutto il mondo. Anche se il trasporto via mare è meno impattante sul clima di quello aereo, l’impronta in termini di emissioni climalteranti complessiva è comunque molto elevata perché dipende perlopiù dalla distanza percorsa e dei metodi usati.

Una volta che il caffè arriva a destinazione, viene imballato. Sempre più spesso in cialde, in plastica o alluminio, che aumentano la quantità globale di rifiuti in plastica. Ci sono infine i metodi di preparazione, in casa o al bar: una macchina per l’espresso, per funzionare, utilizza una quantità di energia superiore di una francese o di una preparazione filtrata pour-over.

«Il problema non è il caffè, ma il capitalismo»

Come per tutti i temi che trattiamo nei nostri articoli sulla sostenibilità, il senso di questo approfondimento non è scoraggiare o colpevolizzare chi fa utilizzo di un determinato prodotto. Le storture generate dalle catene di approvvigionamento, del caffè come di qualsiasi altro prodotto, sono quelle del nostro sistema economico. Anche se è possibile e auspicabile – e su questo torneremo in altri articoli – fare scelte d’acquisto oculate, etiche e virtuose dal punto di vista ambientale, è sempre bene ricordare che gli effetti negativi che abbiamo descritto derivano da scelte precise di individui, che da queste si arricchiscono e acquisiscono sempre maggiore capacità di influenzare i decisori politici, creando condizioni sempre più favorevoli al proprio arricchimento. A discapito della collettività. 

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