Vi svelo la fuffa del Consiglio europeo su Ucraina, difesa e competitività
Quali sono state le vere conclusioni del Consiglio europeo del 20-21 marzo? L'analisi di Giuseppe Liturri

Quali sono state le vere conclusioni del Consiglio europeo del 20-21 marzo? L’analisi di Giuseppe Liturri
Comprendiamo che usare la parola “fallimento” per definire l’esito dell’ultimo Consiglio Europeo del 20-21 marzo è particolarmente difficile per chi continua a credere che istituzioni e assetto decisionale altamente disfunzionali possano concorrere alla soluzione di problemi di cui sono invece la causa.
Però ci permettiamo di dire che di un conclamato fallimento si tratta e lo dimostreremo di seguito “per tabulas”.
A cominciare dalle conclusioni monche. Prem
Nelle conclusioni “adottate” dal Consiglio, il capitolo dell’Ucraina risulta semivuoto e dà conto della “discussione sugli ultimi sviluppi” e rimanda a un documento separato “sostenuto con fermezza da 26 capi di Stato o di governo”. Quattro pagine precedute dalla formula «Il Consiglio europeo ha discusso degli ultimi sviluppi per quanto riguarda l’Ucraina. Il testo che figura nel presente documento è stato sostenuto con fermezza da 26 capi di Stato o di governo.» Un linguaggio
Ma l’aspetto che rende il fallimento ancora più conclamato è che nelle quattro paginette sull’Ucraina, nemmeno i 26 Paesi restanti sono stati in grado di trovare il consenso su una cifra da affiancare alle parole del piano della lettone Kaja Kallas per fornire armi all’Ucraina nel 2025. Dapprima 40 miliardi, poi 20, poi almeno 5 (almeno le munizioni!), poi… niente, nemmeno una menzione. Con la Kallas che è pure arrivata ai ferri corti con il premier spagnolo Pedro Sanchez.
A questo punto qualcuno si aspetterebbe di conoscere i punti su cui c’è stato consenso ma, a leggerli, emerge prepotentemente una sensazione di impotenza e di profonda divisione.
A partire proprio dal tema della Difesa (punti 21-23). È vero che il Consiglio invita a proseguire sulle linee d’azione tracciate da Ursula von der Leyen il 4 marzo (il famoso ReArm Europe, il cui ultimo problema è il nome). Ma è altrettanto vero che non c’è un centesimo per finanziarlo. Che è la traduzione di quel dilatorio «… chiede che siano portati avanti i lavori relativi alle pertinenti opzioni di finanziamento». Segnale chiaro che il cantiere è ancora aperto e non si intravede la chiusura dei lavori. A questo si aggiunge la clausola di “salvezza” («…Quanto precede fa salvo il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri…») e l’esaltazione del ruolo della NATO («…che, per gli Stati che ne sono membri, resta il fondamento della loro difesa collettiva…»). Quindi ognuno per sé e… la NATO per tutti. Il resto è un libro dei sogni per cui non c’è un centesimo. L’unico tema concreto con cui i membri Nato dovranno presto confrontarsi è il riequilibrio della spesa militare all’interno dell’alleanza atlantica. Quindi un “semplice” tema finanziario, per la cui soluzione bisogna trattare con Donald Trump, che non ha alcun interesse ad uscire o distruggere la Nato, ma chiede solo di riequilibrare le “spese del condominio”. Nulla di impossibile. Che non giustifica affatto la corsa a cercare un nuovo improbabile quadro istituzionale per la difesa, su cui la Ue non ha alcuna voce in capitolo, trattati alla mano (citati appositamente nelle conclusioni).
Nel capitolo sulla competitività, si attinge al quaderno delle buone intenzioni per l’anno scolastico che si facevano scrivere agli scolari pigri, affermando che «il 2025 dovrebbe pertanto segnare un cambio di passo nell’azione dell’UE volta a stimolare la competitività» (suona bene e non impegna molto). Le leve su cui magicamente agire saranno la «semplificazione e riduzione degli oneri amministrativi, l’abbassamento dei prezzi dell’energia e la mobilitazione dei risparmi privati». Tutti problemi che esistono perché esiste la Ue.
Si raggiungono punte di involontaria comicità quando si «invita la Commissione a continuare a sottoporre ad esame e a prove di stress l’acquis dell’UE»; cioè il corpo normativo più fumoso, instabile, scritto male e interpretato peggio, dell’intero globo terrestre. Davanti al quale insigni giuristi spesso sostengono che è scritto male apposta, proprio per renderlo inespugnabile, potendo sostenere tutto e il contrario di tutto.
Per poi proseguire con il mantra di un’«autentica unione del risparmio e degli investimenti contribuirà a convogliare ogni anno centinaia di miliardi di euro di investimenti aggiuntivi verso l’economia europea». Come se, per magia, fosse possibile chiedere alla signora anziana che detiene il proprio libretto di deposito presso la Bcc locale ad abbandonare la prudenza e mettersi a comprare azioni di imprese (meglio se produttrici di armi) che non ha mai nemmeno sentito nominare.
Proposito che fa il paio con «intraprendere azioni a livello nazionale volte ad aumentare dimensione e spessore di mercati dei capitali che siano accessibili a tutti i cittadini e a tutte le imprese dell’intera Unione»; proposizione che fa dipendere la partecipazione al mercato dei capitali dalla rimozione di ostacoli regolamentari (su vigilanza, insolvenza). Un pio desiderio che si scontra con la realtà.
Per passare poi alla «maggiore partecipazione degli investitori al dettaglio nei mercati dei capitali mettendo a disposizione possibilità di investimento e di risparmio a livello europeo, comprese maggiori possibilità di prodotti pensionistici e di risparmio su scala UE». Obiettivo molto pericoloso, perché un lavoratore non dovrebbe sentirsi tranquillo sapendo che il proprio fondo pensione investe in imprese dal profilo di rischio elevato o comunque non accettabile.
In parallelo a questa corsa ad armarsi proprio nelle settimane in cui si comincia a parlare di pace, innescando così una nuova escalation, la necessità di trovare i soldi per farlo ha dato vita a una nuova leggenda metropolitana sul risparmio “dormiente”.
Una balla clamorosa, perché il risparmio privato può andare direttamente sul mercato azionario, può indirizzarsi verso le banche o verso il risparmio gestito. E il fatto che prevalga la seconda destinazione sulle altre, non significa che le banche prendano il denaro e lo mettano in un sarcofago. Proprio perché le banche sono istituzionalmente gli intermediari finanziari preposti a far circolare il risparmio verso gli investimenti. Se queste ultime preferiscono lasciarlo in deposito presso la Bce, presso altre banche, o acquistare titoli di Stato, anziché finanziare le imprese (di cui riescono a misurare il rischio) non è un problema del risparmiatore che ha eseguito il deposito. Significa che il sistema finanziario ha preferenze allocative non ottimali (dal punto di vista dello sviluppo dell’economia e degli investimenti). E la soluzione non è quella di esporre a rischi elevati i risparmiatori al dettaglio.
Se queste sono le “idee” della Ue, frutto delle volontà discordanti di 27 diversi interessi nazionali, dove ciascuno pianta la propria bandierina, generando un guazzabuglio irrealizzabile, meglio il dissenso ungherese che un impresentabile e continuo compromesso al ribasso.