Pur considerando che le richieste di conversione non comportano l’impiego di nuove risorse finanziarie rispetto all’investimento iniziale, implicano, pur tuttavia, in ogni caso, i rischi tipici dell’investimento finanziario, considerato che, all’esito dell’operazione di conversione, l’investitore diviene titolare di uno strumento finanziario che, in termini di caratteristiche e di rischiosità, risulta essere ben diverso da quello originariamente acquistato e detenuto in portafoglio.
Di talché, anche l’operazione di conversione postula la sussistenza di un investimento di natura finanziaria e presuppone l’applicazione delle regole di condotta e dei presidi ai quali l’intermediario è ordinariamente tenuto nello scrutinio di ogni investimento da lui intermediato[1].
Ebbene, dall’esame della documentazione versata in atti, si deduce che, al momento delle richieste di conversione, la ricorrente ha semplicemente preso atto di essere stata informata sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni delle operazioni richieste, di aver letto il Regolamento del Prestito Obbligazionario, di essere stata informata che l’operazione era in conflitto di interessi, atteso che sia le obbligazioni, sia le azioni erano state emesse dalla stessa Banca resistente. A giudizio del Collegio, trattasi di una informativa meramente formale ed essenzialmente “di rito”, che non prova l’effettiva rappresentazione alla cliente del fatto che, con la conversione delle obbligazioni in azioni, ella sarebbe divenuta titolare di un ben diverso strumento finanziario dotato di differenti caratteristiche finanziarie, finendo per partecipare al c.d. “rischio di impresa”, con le relative implicazioni prospettiche anche con riguardo al grado di successiva liquidabilità del titolo partecipativo così acquisito. Né, tantomeno, risulta che sia stato reso altrimenti noto questo delicato passaggio al momento della conversione.
Diversamente da ciò, l’intermediario prestatore di servizi d’investimento è tenuto a dimostrare, secondo il consolidato orientamento ACF, di aver assolto agli obblighi informativi “in concreto” e non solo in modo meramente formalistico; in quanto solo il loro effettivo assolvimento può̀ consentire al cliente di valutare le reali caratteristiche dell’operazione e conseguentemente permettergli di compiere una consapevole scelta d’investimento. A ciò si aggiunga che le obbligazioni di che trattasi sarebbero andate a scadenza naturale nel 2016 e, pertanto, l’odierna ricorrente, poco dopo, ben avrebbe potuto e dovuto ottenere dalla Banca la restituzione dell’intero capitale investito, senza correre il rischio di subire danno alcuno. Inoltre, la Banca resistente consta aver effettuato la verifica di coerenza delle operazioni di conversione: gli ordini hanno restituito un esito di adeguatezza positivo senza, però, alcuna indicazione sui motivi di tale esito e senza nessuna specifica correlazione con il profilo finanziario della ricorrente. In definitiva, le verifiche di adeguatezza risultano standardizzate quanto a motivazioni, non fornendo evidenza alcuna degli specifici motivi del giudizio reso e, per tale ragione, non possono essere considerate conformi alla normativa di settore, oltre che con gli orientamenti della giurisprudenza arbitrale consolidatasi sul punto.
Le motivazioni testé formulate consentono di ritenere accertata la responsabilità dell’odierno Intermediario e di quantificare, in linea con quanto già̀ deciso da questo Collegio in sede di esame di analoghe fattispecie, il risarcimento del relativo danno a favore della Ricorrente nella somma pari alla differenza tra il controvalore complessivamente investito nelle azioni rivenienti dalle operazioni di conversione, le cedole medio tempore percepite e il valore corrente delle stesse azioni sulla base dell’attuale prezzo, come rilevabile sul sistema multilaterale di negoziazione Vorvel in cui possono essere trattate.
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[1] Cfr. ACF, 5 luglio 2019, n. 1712.