Su “La Luce Inversa” di Mota
“La Luce Inversa”, romanzo d’esordio di Mota, mette prepotentemente in discussione i confini fra psicanalisi e narrazione. L’opera presenta una struttura molto peculiare ma immediatamente identificabile, tale per cui i […]

“La Luce Inversa”, romanzo d’esordio di Mota, mette prepotentemente in discussione i confini fra psicanalisi e narrazione. L’opera presenta una struttura molto peculiare ma immediatamente identificabile, tale per cui i tre protagonisti – Vanessa, Siddiq e Martin – si alternano nella voce narrante.
La luce eponima è sprigionata dal particolare macchinario messo a punto dalla Dott.ssa Hollis: la Camera a Luce Inversa; i protagonisti si offrono volontari per sottoporsi alla cura sperimentale. La taumaturgica luce è detta inversa in quanto, anziché viaggiare avanti nel tempo, riporta i protagonisti a quella maledetta infanzia nel corso della quale hanno subito abusi e violenze sessuali: elementi di onirica fantascienza si mescolano a crudo realismo lungo l’intera parabola.
Il passato rimosso è “qualcosa di perduto che si ricongiunge a noi”[1] e così La Luce Inversa restituisce a Vanessa, Siddiq e Martin i corpi che avevano quando erano bambini.
Ciascun protagonista si configura non solo come un “Sé narrante”, ma anche – e forse primariamente – come un ascoltatore: non si limita a tessere agli altri due la storia del proprio trauma, ma riesce a collocare il proprio passato entro un orizzonte più ampio di quello puramente individuale, comune a tutti tre. Vanessa, Siddiq e Martin prendono forza come gruppo ascoltandosi l’un l’altro e, dato che nel corso dell’esperimento i loro corpi si materializzano alla vista degli altri, si assistono nel senso percettivo del termine. Ma l’assistenza che i tre si prestano vicendevolmente riveste anche una dimensione etica che è ormai poco praticata nella società della connessione: quella dell’ascolto. Le loro storie producono maggiore eco compenetrandosi l’una nell’altra (a tal fine risulta magistrale la penna dell’Autore, che effettua abilmente il montaggio delle scene di ciascuna storia, le quali procedono assieme lungo il climax narrativo).
La cura del trauma risiede dunque non tanto nella sua rielaborazione mnemonica quanto nella sua condivisione con persone che hanno subìto analoghi soprusi. Un dato che la Dott.ssa Hollis sottolinea nell’incipit del romanzo – asciutto, oggettivo e scientifico, in sapiente contrasto con il tono del resto del narrazione – è proprio che i tre “pazienti volontari” hanno sviluppato un senso di “isolamento, solitudine e inadeguatezza”, finendo per rimanere “estromessi per sempre dagli orizzonti del gruppo, della comunità”. L’esperimento scientifico si pone allora come un medium per riunire le persone in una comunità: una soluzione autoriale piacevolmente originale e quasi sorprendente considerato che nello scenario attuale la tecnologia persegue sempre più spesso la funzione di segregare l’essere umano in contesti semiotici autoreferenziali, algoritmicamente strutturati e in cui il linguaggio è esposto alla monopolizzazione da parte dell’intelligenza artificiale.
Così il passato violento riemerge “tripartito nelle coscienze eppure unico” e i tre finiscono per esprimersi “con una voce sola che parlerà per tutti loro”: la conseguenza ultima sarà che “i confini di ciò che riteniamo costituire propriamente l’individuo vengano dissolti”.
È significativo che Vanessa, Siddiq e Martin, muovendosi tra i raggi della Luce Inversa (l’Autore, con un’efficace descrizione onirica, segue i loro passi tra le nuvole azzurre sortite dallo speciale macchinario), arrivino a una casa e quindi alla condizione dell’abitare, che è consustanziale a quella di famiglia. Proprio in famiglia sono nati i loro traumi: per Vanessa dal compagno della madre, per Siddiq dal prete incaricato di provvedere a lui e ad altri orfani e per Martin dal nonno.
Le violenze sessuali subite dai tre sono, come ogni violenza, de-umanizzanti. Dai loro resoconti emerge un sentimento di alienazione verso gli atti sessuali cui venivano assoggettati; questo sentimento riguarda anche i corpi, sia dei protagonisti che dei loro aguzzini. Il sesso viene descritto come una macchina di produzione del piacere e chi vi è costretto con la violenza ne è, ancor prima che nauseato o terrorizzato, estraniato nel senso marxiano del termine: il piacere è una merce che non gli appartiene e, a causa della devastazione inferta dalla violenza, non gli apparterrà mai. In questo senso, con una delle similitudini più belle del romanzo, la perdita della verginità è raffigurata come una nuda “procedura”. La sessualità si spoglia di ogni attributo emotivo e viene asservita a un impulso libidinale, antico come la violenza.
Anche le figure degli aguzzini sono ritratte con un effetto straniante e colte nella macchinalità dei loro movimenti e gesti. Non che le loro descrizioni siano appannate, tutt’altro: è proprio la prossimità della penna dell’Autore a determinate loro movenze, frasi stereotipate e tic comportamentali a renderli più simili a macchine seminatrici di violenza che non a esseri umani che hanno deliberatamente sposato la perversione e il male.
In definitiva, il dato culturale più rilevante de “La Luce Inversa” è che i tre protagonisti coltivano una prassi narrativa e dell’ascolto reciproco che “apre il futuro nella misura in cui ci offre la possibilità di sperare”[2]: la speranza è quella di “incontrarci fuori di qui”, come dice Vanessa, e quindi di costituire una comunità umana tout court, che oltrepassi il tempo della terapia. L’esperimento della Luce Inversa permette ai protagonisti non tanto di recuperare il proprio passato nella sua oggettività e verità originaria, quanto di costruire un modo di convivere con esso: questa costruzione abbisogna proprio del dialogo con l’altro, tramite cui testare un’autobiografia, un ordine vivibile dei significati che brulicano nella memoria[3].
“La Luce Inversa”, esordio di straordinaria forza, costituisce anche un esempio di meta-narrazione non già perché v’è un autore che intervenga con la sua voce sul piano della narrazione e dei suoi sviluppi, ma, più sottilmente, in quanto si interroga sul senso e sul valore terapeutico del narrare (e del suo imprescindibile corrispettivo: l’ascolto).
[1] In corsivo nel testo.
[2] Byung-Chul Han, La crisi della narrazione, Einaudi, 2024, pag. 32.
[3] Su questo tema v. più diffusamente Sigmund Freud, Costruzioni nell’analisi, Jaca Book, 2024.