Serena Mazzini e il lato oscuro dei social: “ribelliamoci alla mercificazione delle nostre vite”

C’è stato un momento brevissimo, praticamente un battito d’ali, in cui abbiamo creduto che i social network potessero rappresentare uno strumento democratico, piattaforme dove ogni voce aveva il diritto di emergere. Un’illusione che è ben presto tramontata: la dittatura dell’algoritmo ha trasformato la visibilità in una competizione costante, l’informazione è diventata manipolazione, la promozione dei […] The post Serena Mazzini e il lato oscuro dei social: “ribelliamoci alla mercificazione delle nostre vite” appeared first on The Wom.

Apr 28, 2025 - 14:34
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Serena Mazzini e il lato oscuro dei social: “ribelliamoci alla mercificazione delle nostre vite”
Esperta di nuovi media, Serena Mazzini racconta le insidie di un uso poco consapevole delle piattaforme digitali nel suo libro Il lato oscuro dei social network, uscito a marzo per Rizzoli. Una riflessione su quali siano le (spaventose) implicazioni dell’incessante esposizione della nostra vita sui social, con una particolare attenzione all’impatto sulle persone più fragili, dagli adolescenti ai malati

C’è stato un momento brevissimo, praticamente un battito d’ali, in cui abbiamo creduto che i social network potessero rappresentare uno strumento democratico, piattaforme dove ogni voce aveva il diritto di emergere. Un’illusione che è ben presto tramontata: la dittatura dell’algoritmo ha trasformato la visibilità in una competizione costante, l’informazione è diventata manipolazione, la promozione dei consumi è penetrata capillarmente nei contenuti e il marketing – anche di noi stessi – è diventato l’imperativo dei nostri tempi. Per chiunque. A svelare i meccanismi più tossici dell’uso dei social network è un libro potente, disturbante e necessario: Il lato oscuro dei social network di Serena Mazzini. Freelance esperta di social media strategy e docente di advertising e teoria dei mass media presso la NABA di Milano, è stata coautrice del podcast Il Sottosopra di Selvaggia Lucarelli e ha partecipato a inchieste significative come quella sul Pandoro-gate di Chiara Ferragni. Ha inoltre partecipato a un disegno di legge sulla tutela dei minori nella dimensione digitale.

Il suo sguardo sull’universo dei social è quello di chi si è addentrato nei suoi fondali più oscuri, di chi ha visto le peggiori degenerazioni dell’uso di questi strumenti – da Ruby Franke, star dei family vlogging condannata per maltrattamenti sui suoi bambini, fino a MrBeast, un mercante di emozioni diventato miliardario grazie a un intrattenimento costruito sulla beneficenza – e di chi le ha volute svelare, sperando in un risveglio collettivo.

Le abbiamo chiesto di raccontarci com’è nato questo libro e di come sia possibile scardinare i meccanismi più nocivi dei social network.

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Intervista a Serena Mazzini

Da dove nasce l’interesse per lo studio delle piattaforme social e delle loro ripercussioni?

Sono una Millennial cresciuta con il mito di internet, inteso come strumento di connessione, anche politico, che viene dal basso. Se ci riflettiamo, durante i primi anni di vita dei social network c’era un entusiasmo diffuso, e il fatto di poter trasformare le proprie passioni in un lavoro sembrava un sogno. Operando nel campo della comunicazione digital, però, mi sono sempre più resa conto di quanto le dinamiche che percorrono queste piattaforme siano profondamente commerciali. Per anni ho vissuto un forte distacco emotivo rispetto a quello che vedevo, perché tendenzialmente studiavo i social trattandoli come dati che potevano essere interessanti per le aziende. Del tipo: il cagnolino funziona, il bambino no, la ragazza che racconta un’esperienza emotiva sì e così via.

Poi è successo qualcosa…

Esattamente, a un certo punto qualcosa si è spezzato. Il punto di rottura l’ho raggiunto nel marzo 2020, durante la pandemia. I numeri non bastavano più per comprendere quello che trovavo: quando ho iniziato a vedere tutte quelle scene di persone che andavano a riprendere i parenti mentre morivano di Covid, mettendo in sottofondo la canzone di tendenza quella settimana, mi sono resa conto di una cosa. Ciò che per anni abbiamo chiamato storytelling, in realtà si era trasformato in una mutazione antropologica. Le persone stavano effettivamente assorbendo quelle dinamiche di visibilità che hanno snaturato addirittura la cosa più privata in assoluto della vita, ovvero la morte.

Nel tuo libro parli infatti di un’umanità piegata su sé stessa. Come è evoluta questa tua nuova consapevolezza dal marzo 2020 in poi?

Avendo studiato statistica e scienze politiche, avrei sempre voluto fare la ricercatrice. Purtroppo, però, mi era stato offerto un posto da ricercatrice a titolo gratuito, che non potevo permettermi. Quindi mi sono detta: “ti piace fare ricerca, ti piace mettere insieme i pezzi, perché non scrivi un libro?” Così ho iniziato a sfruttare le competenze tecniche che avevo per raccogliere dati: il libro nasce da oltre 3 anni di ricerche legate ai fenomeni che si trovano nel libro. Attraverso l’osservazione, mi rendevo conto di come stava crescendo l’esposizione dei minori, delle malattie e della morte, il tutto in un sistema che promuove processi di manipolazione, anche politica. Ho poi selezionato alcuni esempi che potevano facilitare la lettura. Il problema è che a un certo punto mi sono resa conto, come dici tu, che c’era questa umanità spezzata davanti ai miei occhi, un’umanità che era da interpretare, da razionalizzare. Quindi in realtà la gestione del libro è stata molto lunga. La prima bozza è del novembre 2021, ma all’interno del libro ci sono eventi che arrivano fino a gennaio 2025. Parlando di qualcosa così pervasivo e manipolativo che continua a cambiare molto velocemente, il libro era costantemente da aggiornare.

Come hai selezionato i casi di cui parli?

All’interno del libro ci sono alcuni dei casi più eclatanti: dai figli che andavano a riprendere i genitori mentre morivano durante la pandemia, fino alla storia di Molly Russel, la quattordicenne inglese che si è suicidata nel 2017 dopo aver guardato migliaia di post sul suicidio che le venivano proposti dall’algoritmo. Il suo è stato il primo caso in cui i giudici hanno stabilito che la causa del decesso è stata proprio l’algoritmo di Instagram. Un anno e mezzo fa ho poi assistito a un suicidio in diretta su TikTok di un ragazzo italiano di Bologna. Da lì mi sono immersa ancora di più nelle ricerche. Mi sono chiesta: che tipo di manipolazione operano su di noi i social network e soprattutto sulle persone più giovani? Il ragazzo che si è impiccato era stato vittima di una shit storm feroce, quindi ho cercato di comprendere che cosa succede razionalmente quando sei colpito da una shit storm. Io ne ho subìte tantissime nel corso degli anni, per esempio.

Durante le tue ricerche, ti sei data qualche risposta su come si generano gli algoritmi più tossici?

Ho iniziato a creare degli algoritmi di apprendimento, quindi ho creato dei profili finti fingendomi una ragazzina di 15, 16 anni che va a cercare temi specifici. L’obiettivo era quello di vedere quanto tempo ci si mette a entrare nei flussi di contenuti che sono emotivamente ricattatori. Ho iniziato a cercare contenuti che parlano di dieta, scoprendo che se scrolli per più di 13 minuti questi contenuti inizi a trovare prima le ricette per rimanere fit, poi diete sempre più restrittive, quindi la chetogenica o il digiuno intermittente e infine inizi a vedere contenuti di ragazze tristi perché sono sovrappeso. Dopo un po’ inizi a vedere ragazze felici perché sono dimagrite e che sono diventate influencer. È ovvio che se sei una ragazzina già sensibile a questo tema ti convincerai che la soluzione è quella di diventare più magra. In tutto questo abbiamo anche quella spettacolarizzazione dell’anoressia nervosa con vari casi in Italia. C’è il caso di Leila Kaouissi (di cui abbiamo parlato qui), ma ce n’è uno ancora più problematico. La ragazza si chiama Maya, è minorenne, al momento ha più di 800.000 follower, e continua a dare informazioni anti scientifiche senza essere seguita da un nutrizionista né da uno psichiatra. I suoi genitori le hanno aperto un e-commerce di gioielli che riceve talmente migliaia di ordini. Qua abbiamo una malattia egosintonica che non solo è acuita dai follower ma anche dai genitori, che grazie a quella visibilità data dalla malattia ti rendono imprenditrice di te stessa a 16 anni con un e-commerce.

Da dove nasce questa spettacolarizzazione del dolore, che cosa ha portato a questa degenerazione?

Nel libro faccio un’analisi storica: il voyeurismo del dolore degli altri parte addirittura da Bisanzio. Pensiamo poi alle corti medievali, con i nani che venivano presi per far percepire i nobili come più alti, e poi i freak show, i circhi e quant’altro. Arrivando ai giorni nostri, c’è tutta la spettacolarizzazione messa in scena dalla televisione. I social network proseguono e intensificano qualcosa che ormai abbiamo assorbito culturalmente attraverso i secoli.

Come gestisci invece la tua presenza sui social?

A un certo punto mi sono resa conto che anch’io avevo subìto l’influenza di questo grande gioco della visibilità della piattaforma. Anche involontariamente, infatti, può capitare di andare a produrre quei contenuti che portano più interazioni. È proprio un processo inconscio. Io tendo a pubblicare molto poco nel feed, e tendo a non far mai vedere integralmente il mio viso. Nel saggio La tua faccia ci appartiene, Kashmir Hill spiega come le piattaforme utilizzino il nostro volto come un dato da vendere a terzi. In generale, però, lavorando con i social da oltre un decennio, riesco a mantenere un grande distacco. Il mio profilo non segue alcuna brand identity, è disordinato, non c’è nessuna armonia cromatica. Lo spazio di comunicazione che preferisco è quello della newsletter, dove posso approfondire quello che dico. Perché questa superficialità che regna sui social, questo linguaggio che devi necessariamente utilizzare per solleticare l’algoritmo, mi inquieta profondamente. Non riesco neanche a fare dei video in cui parlo, lo trovo dissociante. Quindi in realtà io odio i social. Rimango sui social per il concetto di egemonia di cui parlava Gramsci: non posso parlare di social senza starci anche dentro. Non posso provare a rendere più consapevoli le persone se non so io per prima come lo si può diventare.

E come si può cambiare questo sistema dall’interno?

Il mondo del marketing digitale può fare tanto perché ha il potere commerciale ed economico. Tutti i fenomeni che descrivo nel libro – dall’esposizione dei minori, dei malati, dei morti alla spettacolarizzazione delle malattie – perderanno di forza solo quando non esisteranno più brand che incentiveranno questo tipo di comportamento. Un genitore che espone i figli per soldi, se non ha più ritorno economico magari smetterà di farlo. Tutte le persone che lavorano nel mondo della comunicazione devono abbracciare un approccio etico e di responsabilità sociale. Inoltre, dobbiamo lavorare per regolamentare il far west normativo che regna sovrano su queste piattaforme. Quindi, al di là del progetto di legge a cui ho collaborato per l’esposizione dei minori, bisogna lavorare su tutto il resto. C’è poi la responsabilità singola del creator, perché se dici che fare creator è il tuo lavoro devi responsabilizzarti rispetto a quello che mostri. Infine, anche gli utenti devono iniziare a lanciare delle rivendicazioni di stampo politico: noi utenti dobbiamo pretendere un utilizzo più etico dei social. Dobbiamo iniziare a chiedere maggiori leggi, maggiore trasparenza sull’algoritmo e che Internet torni a essere uno spazio libero, gratuito e decentralizzato. Non possiamo continuare a stare inermi di fronte alla mercificazione della nostra vita e delle nostre emozioni.

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