«Sconfiggere l’inquinamento, una microplastica alla volta». Giulia Lelli, la giovane scienziata che ha ideato un sensore per scovarle in mare

Nata a Varese, classe 1995, liceo scientifico e poi biotecnologie: laurea triennale a Milano, magistrale in Svezia, dottorato a Bolzano. Oggi dà la caccia a uno degli agenti inquinanti più insidiosi e pericolosi. «Le nanoplastiche sono una minaccia silenziosa. Riconoscerle è il primo passo per proteggere ciò che abbiamo di più prezioso». La sua storia per Venti di futuro

Mag 7, 2025 - 05:09
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«Sconfiggere l’inquinamento, una microplastica alla volta». Giulia Lelli, la giovane scienziata che ha ideato un sensore per scovarle in mare

È la Ghostbuster delle nanoplastiche e proprio come gli acchiappafantasmi si affidavano al mitico PKE Meter capace di rintracciare impalpabili ectoplasmi lei ha ideato un super sensore in grado di rilevare le particelle invisibili che si nascondono nei mari, nei fiumi, negli oceani. Frammenti minuscoli – più piccoli di un micrometro – che non si vedono, ma che ci sono. Derivano dalla degradazione della plastica e portano con sé contaminanti tossici.

eleonora chioda venti di futuro

Lei è Giulia Elli, 29 anni, ricercatrice al Sensing Technologies Lab della Facoltà di Ingegneria all’Università di Bolzano, con un sogno: «Sconfiggere l’inquinamento, una nanoplastica alla volta». Secondo il World Economic Forum, nel 2050 ci sarà più plastica che pesci nei mari e nei fiumi. Il suo sensore elettrochimico per la rilevazione di nanoplastiche di polistirene è nato in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e con l’Università di Parigi.

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Giulia Lelli

«Le nanoplastiche sono una minaccia silenziosa. Riconoscerle è il primo passo per proteggere ciò che abbiamo di più prezioso. La ricerca per me è proprio questo: cercare soluzioni a problemi reali e che possano migliorare la nostra vita».

Come funziona? «Abbiamo usato nanotubi di carbonio: quando interagiscono con le nanoplastiche di polistirene, si verifica un cambiamento nella corrente elettrica. È da lì che ricaviamo la risposta: la corrente infatti varia in base alla concentrazione di nanoplastiche nella soluzione che stiamo analizzando.

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Siamo partiti da condizioni semplici in laboratorio, usando acqua distillata: abbiamo visto che le nanoplastiche si scioglievano nella soluzione. Poi siamo passati a soluzioni più complesse: abbiamo utilizzato un’acqua marina artificiale, simile a quella del mare, e in questo caso il sensore si è dimostrato sensibile, riuscendo a rilevare nanoplastiche più mercurio. È un risultato importante, perché conferma che il sensore funziona anche in ambienti più realistici».

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La ricerca sarà pubblicata in questi giorni sulla rivista scientifica Advanced Materials di Wiley e nasce da Giulia e da un team di ricercatori della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bolzano, guidata dal Prof. Andrea Gasparella: sono i professori del Sensing Technologies Lab, Paolo Lugli e Luisa Petti. «Avere un gruppo che ti supporta è una grande fortuna».

Di Varese, classe 1995, liceo scientifico e poi biotecnologie: laurea triennale a Milano, magistrale in Svezia, dottorato a Bolzano. È qui che Elli ha iniziato a lavorare sul sensore grazie a una borsa di studio. «Leggendo la letteratura scientifica mi sono accorta che sulla rivelazione delle nanoplastiche c’era ancora pochissimo. Ci sono tecniche, ma sono complesse e costose, come la spettroscopia, ovvero lo studio di uno spettro elettromagnetico. Da qui è nata l’idea di sviluppare una tecnologia più semplice».

Secondo molti studi, le nanoplastiche sono presenti anche nel cibo (latte, miele, birra, pesce…), nell’acqua in bottiglia, nei cosmetici e nei vestiti. Ora il passo successivo è portare il sensore fuori dal laboratorio.«L’idea è di usarlo in ambienti reali. Mari, fiumi, oceani. È solo conoscendo questi dati che si potrà poi intervenire con operazioni di bonifica. L’Università di Udine ci ha contattati. Hanno imbarcazioni che effettuano campagne di monitoraggio in mare e ci hanno proposto di testare il sensore direttamente a bordo».

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Le nanoplastiche sono subdole anche per un altro motivo: non sono solo inquinanti, ma diventano “carrier”, veicoli di sostanze ancora più dannose. «Abbiamo visto che si legano con facilità a metalli pesanti, come gli ioni di mercurio, anche a concentrazioni molto basse. E possono trasportare contaminanti pericolosi: possono essere assorbite dalle piante, dagli organismi marini, e arrivare fino all’uomo».

Accanto alla ricerca sulle nanoplastiche, Elli lavora anche su altri sensori elettrochimici, come quelli per la rilevazione dei polifenoli negli alimenti. «Studiamo soluzioni per migliorare la qualità del cibo, partendo da molecole chiave come l’acido gallico. Anche in questo caso, l’obiettivo è lo stesso: sviluppare strumenti semplici e applicabili».

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Poi si ferma e aggiunge: «Innovare significa fare qualcosa e di nuovo e spesso gli ostacoli sono moltissimi. Cosa ho imparato? Che a volte basta avere l’idea giusta, la giusta guida, e il momento giusto. Se oggi riusciamo a vedere quello che prima era invisibile, allora forse possiamo anche imparare a fermarlo».