Per paura di sembrare cringe, la Gen Z sta diventando una generazione di puritani
I social hanno alimentato un meccanismo di sorveglianza e auto-sorveglianza per cui giudichiamo costantemente noi stessi e gli altri sulla base di ciò che viene postato sui propri profili. Esporsi, però, significa anche che le nostre figure di merda rimarranno sempre conservate su Internet. I Millennial lo hanno provato sulla propria pelle e la Gen Z non ha alcuna intenzione di correre il rischio di sembrare altrettanto “cringe”. A costo però di limitare enormemente la propria libertà di espressione e diventare puritani. L'articolo Per paura di sembrare cringe, la Gen Z sta diventando una generazione di puritani proviene da THE VISION.

Nel 2021 l’Accademia della Crusca ha inserito il termine “cringe” nella lista delle parole nuove, sia come aggettivo (“imbarazzante, detto di scene e comportamenti altrui che suscitano imbarazzo e disagio in chi le osserva”) che come sostantivo (“la sensazione stessa di imbarazzo”). Sebbene sia una parola di antica attestazione in inglese, intorno al 2015 ha assunto un significato culturale più profondo, diffondendosi soprattutto su Internet con le compilation di video intitolate “Try not to cringe” (prova a non cringiare), che ritraevano persone in atteggiamenti molto imbarazzanti. Già da anni si parlava di cringe comedy, ovvero di film o serie tv in cui la comicità si basa sulla capacità di suscitare disagio nello spettatore, come accade ad esempio in The Office, ma negli ultimi anni questa categoria è diventata una sorta di incarnazione dello Zeitgeist onnipresente.
Secondo alcuni studiosi, dal punto di vista psicologico il successo del cringe si spiega col fatto che questa categoria consente di esplicitare l’ostilità verso un individuo o un gruppo di persone senza subire una sanzione sociale. Più che con il sentimento di imbarazzo, infatti, il cringe sembrerebbe avere a che fare con il sentimento di disgusto, ma poiché il primo è molto più accettabile del secondo, dire che qualcosa o qualcuno è “cringe” è meno rischioso di dire apertamente che lo si odia. Il cringe inoltre non è un’emozione, ma ha una componente critica e performativa: contrariamente all’umiliazione, che viene perlopiù subita, e alla vergogna, che è interiorizzata, il cringe si manifesta nel momento in cui viene dichiarato da qualcuno.
All’inizio dell’anno, il musicista e comico Kyle Gordon ha pubblicato il singolo “We Will Never Die”, una parodia delle “anthem songs” degli anni ’10, caratterizzate da ritmi allegri, battiti di mani e “Hey!”. Nel video, girato come se fosse un flash mob nell’open space industriale di un’azienda tech, Gordon indossa un cappello Fedora, simbolo della moda hipster. La canzone è diventata virale su TikTok, ma pochi hanno capito che si tratta di una parodia: sebbene Gordon abbia pubblicato diverse canzoni satiriche che prendono in giro altri generi musicali, gran parte del pubblico della Gen Z si è convinta che “We Will Never Die” non solo fosse una canzone vera, ma fosse l’epitome del cringe. Le reazioni sono state così forti che il comico è diventato in breve tempo una figura odiatissima, inserendosi con perfetto tempismo nell’ultimo trend dei social: odiare i Millennial.
La rivalità fra generazioni non è cosa nuova, ma mai prima d’ora c’era stato un astio così marcato tra generazioni così vicine. Inoltre, la progressione ha sempre seguito lo schema dei giovani innovatori che criticano i vecchi reazionari, mentre ora la situazione sembra essersi ribaltata. La Gen Z, infatti, rappresenta una fetta di popolazione particolarmente conservatrice, a tratti quasi puritana, non solo negli Stati Uniti. Un recente studio sui valori di questa generazione in Italia ha mostrato come in generale sia meno propensa al rischio e più incline alla stabilità. Alcuni critici hanno cominciato a parlare di “puriteen”, visto che questi comportamenti sono diffusi soprattutto fra gli adolescenti, e riguardano non solo le preferenze politiche (soprattutto fra i giovani maschi), ma più in generale la visione del mondo: la Gen Z fa poco sesso, idealizza i “valori tradizionali”, non va più a ballare, è ossessionata dalla salute e dall’estetica clean. Questa tendenza si riflette anche nel modo di vivere le relazioni: sia la ricerca di ActionAid “I giovani e la violenza fra pari” sugli adolescenti italiani sia quella di Save The Children “Le ragazze stanno bene” hanno evidenziato una visione molto più rigida sui ruoli di genere nei rapporti romantici di quanto non ci si possa aspettare. Persino lo humor della Gen Z, che agli occhi degli adulti appare sfuggente se non incomprensibile, è in realtà molto conformista: forse la prima volta che i meme dell’Italian brain rot sono comparsi su Internet sono stati dirompenti, ma alla milionesima condivisione Ballerina Cappuccina è rivoluzionaria tanto quanto uno sketch di Paperissima.
Questo nuovo conservatorismo non ha una causa univoca. Per alcuni si tratta di una reazione normale all’ipersessualizzazione di Internet, che avrebbe cresciuto una generazione di ragazzi moralisti. Sulla stessa scorta, altri pensano si tratti di una risposta a un presunto “eccesso di woke”. Per altri ancora sono gli strascichi del trauma del lockdown in anni cruciali per lo sviluppo delle capacità sociali. Ma non bisogna nemmeno dimenticare che questa generazione è la prima a essere cresciuta sottoponendosi a una continua sovraesposizione sui social, introiettando l’idea che il proprio valore come persona dipenda dall’immagine pubblica e indelebile che si consegna a Internet. E proprio la paura di essere bollati come cringe dall’onnipresente sorveglianza e auto-sorveglianza dei social potrebbe aver alimentato l’attitudine conformista della Gen Z. L’adolescenza è di per sé un’età imbarazzante, ma oggi questo imbarazzo non ha più diritto all’oblio. Nel momento in cui l’espressione di autenticità diventa rischiosa, lo stile personale diventa “cheugy” (di cattivo gusto) e ogni pensiero “delulu” (da “delusional”, delirante) è davvero difficile riuscire muoversi liberamente negli spazi digitali.
La sociologa Caroline Brody parla del cringe content come di un dispositivo di controllo: in un primo momento, i video cringe virali ritraevano persone filmate senza il loro consenso mentre facevano cose strane o effettivamente imbarazzanti in luoghi pubblici. Il cringe content, scrive Brody, non solo ha la “funzione di umiliare coloro che in qualche modo hanno violato una norma sociale, ma contribuisce anche all’auto-percezione dello spettatore. Caricando un video, o anche solo condividendolo o mettendo like, un individuo prende le distanze dal comportamento mostrato. È un modo sia per condannare che per interiorizzare ciò che è appropriato e cosa non lo è”. Ma poi il cringe content è cambiato, e ha cominciato a prendere di mira utenti comuni e i confini tra sorvegliati e sorveglianti si sono fatti sempre più sfumati: qualsiasi contenuto postato online, anche volontariamente, può diventare cringe.
Il giudizio sul cringe si è quindi lentamente spostato dai comportamenti dell’individuo alla sua identità. I Millennial, approdati su Internet durante l’adolescenza o nel passaggio verso l’età adulta, sono stati la prima generazione a costruire e definire la propria identità attraverso l’esibizione della propria estetica e dei propri consumi culturali nello spazio digitale. Per questo appaiono così cringe agli occhi della Gen Z, che non riesce nemmeno a guardare Sex and the City o ascoltare Eminem senza provare imbarazzo. E anche se qualcuno inizia a provare nostalgia per questa presunta era d’oro del web, che viene però romanticizzata e idealizzata, prevale comunque il fastidio per le manifestazioni di gioia, felicità e spontaneità di questa epoca appena passata. La positività tossica è senz’altro stato un problema della cultura Millennial, e non è un caso se il singolo di Kyle Gordon la prende in giro, ma è singolare che pochi abbiano pensato che una canzone il cui ritornello dice: “Non moriremo mai, nessuno di quelli che conosco morirà, tua mamma e tuo papà non moriranno mai” potesse essere ironica.
Il bersaglio del cringe, scrive Brody, è la libertà, o meglio, un certo tipo di libertà. Nel Poscritto sulle società del controllo, Gilles Deleuze scriveva già nel 1992 che essa ha bisogno di una continua mobilità e mutazione per imporsi; viviamo una libertà i cui confini vengono però dettati da esasperanti sistemi di controllo: password, QR-code, pubblicità targettizzate, burocrazia digitale, eccetera. Postando i nostri reel nelle praterie sconfinate dei social sentiamo di possedere questa libertà, senza renderci conto di inserirci sempre più profondamente nel meccanismo di controllo, come sorvegliati ma anche come sorveglianti. Non saremo semplicemente “giudicati”, ma le nostre figure di merda cringe rimarranno sempre scolpite nella pietra dei metadati di Internet. I Millennial lo hanno provato sulla propria pelle e la Gen Z non ha alcuna intenzione di correre questo rischio. A costo però di limitare enormemente la propria libertà di espressione.
Il portato politico di questo cambiamento di sensibilità può essere enorme, e ne abbiamo avuto prova nelle ultime elezioni statunitensi, dove il puritanesimo culturale delle nuove generazioni si è trasformato nella preferenza politica per Donald Trump, o in quelle tedesche, dove i nuovi elettori hanno votato soprattutto partiti conservatori, se non l’estrema destra. Il fenomeno per ora è limitato quasi solo ai giovani uomini, ma i numeri sono preoccupanti: il 62% dei maschi della Gen Z vorrebbe che nel proprio Paese le cose tornino “come una volta”. In Brasile il 47% dei giovani maschi pensa che il posto di una donna sia a casa; fra i Boomer la percentuale è del 33%. Il rischio però è che anche coloro che non hanno abbracciato posizioni esplicitamente conservatrici saranno comunque meno inclini a prendere posizione, riducendo così la costruzione di narrazioni alternative. Questa forma di sottrazione dal dibattito può comunque avere anche effetti positivi: la Gen Z comincia a provare insofferenza per gli schermi, l’esposizione ai social e a provare nostalgia per le connessioni reali. Per restare nel linguaggio dei meme, vuole tornare a “toccare l’erba”. E magari proprio lontana dai dibattiti polarizzati e inconcludenti di Internet, può ritrovare una dimensione comunitaria, dove il cringe smette di essere uno spauracchio, ma diventa quella libertà tanto osteggiata dalla società del controllo.
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