Nella condanna a Depardieu c’è una prima vittoria contro la vittimizzazione secondaria

Martedì 13 maggio l’attore francese Gérard Depardieu è stato condannato con pena sospesa a 18 mesi di carcere per aver aggredito sessualmente due donne, una scenografa e un’assistente alla regia, sul set del film Les Volets verts nel 2021. Si tratta della prima condanna emessa nei confronti di un attore dopo che è scoppiato il […] The post Nella condanna a Depardieu c’è una prima vittoria contro la vittimizzazione secondaria appeared first on The Wom.

Mag 15, 2025 - 11:04
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Nella condanna a Depardieu c’è una prima vittoria contro la vittimizzazione secondaria
L’attore francese Gérard Depardieu è stato condannato a 18 mesi di carcere per aggressione sessuale contro due donne. E dovrà anche risarcirle per l’atteggiamento sessista e intimidatorio dei suoi avvocati. Ecco perché questa sentenza è un passo importante verso la condanna della vittimizzazione secondaria

Martedì 13 maggio l’attore francese Gérard Depardieu è stato condannato con pena sospesa a 18 mesi di carcere per aver aggredito sessualmente due donne, una scenografa e un’assistente alla regia, sul set del film Les Volets verts nel 2021. Si tratta della prima condanna emessa nei confronti di un attore dopo che è scoppiato il #MeToo del cinema francese, pronunciata alla vigilia del Festival di Cannes. La protesta era iniziata nel 2019, quando l’attrice Adele Haenel denunciò il regista Christophe Ruggia. Nel 2020 Haenel, insieme alla collega Noemie Merlant e alla regista Celine Sciamma, se ne andò dalla sala dei Cesars, che quell’anno assegnarono il premio di miglior regista a Roman Polanski, su cui fino al 2024 pendeva un processo per uno stupro risalente al 1973, evitato grazie a un accordo extragiudiziale. La sentenza è importante non solo per la notorietà di Depardieu (che è stato denunciato anche da diverse altre attrici e lavoratrici del cinema), ma anche perché l’attore è stato condannato a pagare un risarcimento alle due donne per vittimizzazione secondaria.

Adele Haenel durante il processo
Adele Haenel durante il processo

Cos’è la vittimizzazione secondaria

Con il termine “vittimizzazione secondaria” si intendono tutte le ulteriori sofferenze fisiche o psicologiche che una vittima di una violenza di genere può subire da parte delle istituzioni o nei tribunali. La Convenzione del Consiglio d’Europa per l’eliminazione della violenza di genere, nota come Convenzione di Istanbul, prevede che gli Stati firmatari si impegnino a “proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza”, tra cui proprio la vittimizzazione secondaria, paragonandola ad atti come intimidazioni, rappresaglie o la reiterazione del reato. Nell’ambito di un processo, la vittimizzazione consiste soprattutto nell’attribuire alla vittima la responsabilità della violenza subita, ad esempio collegandola a comportamenti o stili di vita considerati immorali o rischiosi.

Durante il processo a Depardieu, gli avvocati della difesa si erano fatti notare per un comportamento molto aggressivo nei confronti delle due accusanti e delle loro avvocate, definite a più riprese “signorine”, “isteriche” e “insopportabili”, tanto che un gruppo di duecento legali ha scritto una lettera aperta al quotidiano Le Monde per denunciare la situazione. “Prendere ripetutamente di mira delle colleghe solo perché donne, adottare una strategia palesemente sessista, violare il rispetto dovuto alla toga attaccando il loro sesso e/o genere, non deve mai trovare posto in un’aula di giustizia francese”, si legge nella lettera. Alla lettura della sentenza, il tribunale ha definito “eccessive e umilianti” e “lesive della dignità della persona” le parole degli avvocati di Depardieu, condannandolo a pagare un risarcimento di circa tremila euro alle due donne.

Un problema che è anche nostro

Nei processi per violenza sessuale non è raro che la difesa cerchi in tutti i modi di attaccare la credibilità della donna, creando così la situazione paradossale secondo cui è l’accusa a doversi non solo difendere, ma dimostrare di aver subito il reato. Si tratta infatti di processi che nella maggior parte dei casi non prevedono testimoni e che si svolgono quasi tutti su due versioni discordanti dello stesso episodio, con molti indizi e poche prove. Per la difesa quindi può rivelarsi più facile convincere i giudici che la vittima di violenza non è attendibile, anziché cercarli di convincere della plausibilità della versione dell’accusato. A dicembre del 2023, fecero discutere le domande rivolte alla presunta vittima da un’avvocata dei quattro imputati nel processo di violenza sessuale di gruppo in cui è coinvolto anche Ciro Grillo, figlio di Beppe Grillo. Le domande si soffermavano in particolare sulla mancata reazione della ragazza alla violenza, “aggravata” dal fatto che il giorno dopo era andata a fare kitesurf con gli amici.

Anche se è considerata alla stregua di un meccanismo inevitabile in un processo per violenza sessuale, la vittimizzazione secondaria non dovrebbe verificarsi. Nel 2012 una direttiva del Parlamento europeo ha stabilito chiaramente che la protezione della vittima è uno degli obblighi delle istituzioni in ogni fase del processo: “Come tali, le vittime di reato dovrebbero essere riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile e professionale, senza discriminazioni” ed “essere protette dalla vittimizzazione secondaria e ripetuta”.

Un altro momento del processo
Un altro momento del processo

Una violenza che non passa più inosservata

La prima e più memorabile condanna della vittimizzazione secondaria fu pronunciata da Tina Lagostena Bassi nel famoso Processo per stupro del 1979, quando nella sua arringa l’avvocata disse che nessun tribunale chiederebbe al gioielliere di dimostrare di essere stato derubato o lo ammonirebbe per aver esposto i propri gioielli in vetrina. Ma più di quarant’anni dopo, le cose non sono molto cambiate: nel 2021 il nostro Paese è stato condannato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per il processo affrontato da una giovane donna che aveva denunciato una violenza sessuale di gruppo, e che tra l’altro si concluse con l’assoluzione degli imputati. Per i giudici della CEDU, la donna era stata costretta a rivivere l’esperienza traumatica più volte ed era stata sottoposta a domande intrusive e umilianti, che non avevano a che fare con il reato contestato.

La donna ci mise sette anni non tanto per ottenere giustizia, ma per veder riconosciuto il trattamento degradante subito da parte di chi aveva il dovere di proteggerla.

La sentenza del caso Depardieu va in una nuova direzione, visto che il tribunale ha riconosciuto e condannato immediatamente l’atteggiamento sessista e aggressivo degli avvocati dell’attore

E, in un certo senso, mette una pietra sopra l’annosa obiezione che ha infestato tutto il movimento #MeToo, ovvero che le donne denunciano i personaggi famosi solo perché sono “in cerca di visibilità”. In questo caso l’obiezione era ancora più assurda, visto che le due donne hanno deciso di rimanere anonime, ma se c’è una cosa che questo processo ha dimostrato è che nessuna ricerca di visibilità può essere tanto importante da volersi sottoporre volontariamente all’umiliazione che la maggior parte delle donne subisce nei tribunali, soprattutto quando accusa un uomo ricco e potente di violenza sessuale.

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