Lavoro negato

Dal videomessaggio di Meloni al vuoto politico sulla dignità del lavoro: riflessioni (inutilmente amare) su un Primo Maggio che non fa più rumore. Altro che cortei, altro che megafoni e […]

Mag 1, 2025 - 17:46
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Lavoro negato

Dal videomessaggio di Meloni al vuoto politico sulla dignità del lavoro: riflessioni (inutilmente amare) su un Primo Maggio che non fa più rumore.

Altro che cortei, altro che megafoni e slogan stanchi. Nel 2025, a spiegare cosa sia il Primo Maggio ci pensa Giorgia Meloni in video verticale, con sfondo neutro e dichiarazioni da teleprompter emozionale. Siamo passati dalla lotta operaia alla narrazione aziendale. “Abbiamo creato un milione di posti di lavoro”, dichiara con entusiasmo degno di un pitch da incubatore di startup. Il tutto mentre i lavoratori veri — quelli che fanno la fila per una visita INAIL o che devono decidere se farsi pagare in voucher o in nero — si prendono una giornata di pausa dall’illusione collettiva.

Dicono che i salari crescono. E certo, se confronti il reddito medio con il prezzo di un pacco di pasta, magari oggi riesci a comprarne due invece di uno e mezzo. Ma nel frattempo la qualità del lavoro è crollata a picco, insieme alla dignità, alla stabilità, al potere d’acquisto e all’idea stessa di cittadinanza fondata sul lavoro. Perché oggi lavorare non ti emancipa più: ti trattiene appena sopra il livello di sopravvivenza, in apnea sociale.

E la cosa più grave è che questo sistema viene celebrato proprio il giorno in cui si dovrebbe ricordare che il lavoro non è una concessione dello Stato, ma una conquista storica, fatta di sangue, scontri, sindacati veri (non quelli con la bandiera da sventolare tra un aperitivo e l’altro) e fabbriche occupate. Oggi invece, il lavoro è “incentivo”, “flex-security”, “upskilling”. Cioè: arrangiati, formati, spera.

E allora eccoci qui: Giorgia Meloni celebra il Primo Maggio annunciando provvedimenti “per rendere l’Italia sempre più amica del lavoro”. Già, il lavoro oggi ha bisogno di amici, come uno che si è rotto una gamba e spera che almeno qualcuno lo accompagni fino a casa.

Il problema non è solo Giorgia Meloni, e neppure solo questo governo. Il problema è che da trent’anni il lavoro è stato svuotato, snaturato, trasformato in “occupabilità”. Una parola che sa di call center e di corsi di formazione venduti come lavatrici in tv. Il lavoro non è più un diritto, ma una funzione. Devi essere “funzionale” al sistema, non importa se sei sfruttato, sottopagato, precario, usa-e-getta. Basta che servi.

E nel frattempo, chi ti racconta che va tutto bene ti infila la pacca sulla spalla e la retorica sulla meritocrazia, mentre fuori dalle narrazioni aziendali crescono gli stage gratuiti, i contratti a tempo di un weekend e il lavoro povero che non basta a pagare nemmeno una stanza in subaffitto. E tu dovresti pure dirgli grazie.

Ma c’è un’altra retorica ancora più nauseante: quella della “festa”. Il Primo Maggio ridotto a concertone, a dirette social, a dichiarazioni da ufficio stampa governativo. E nessuno che dica la verità: che il lavoro, quello vero, è sparito dalle agende politiche. Che la sinistra — quella che dovrebbe avere il lavoro nel DNA — si è messa a rincorrere il personal branding, la comunicazione, le strategie digitali, dimenticandosi che l’articolo 1 della Costituzione non è un meme.

Il lavoro oggi è faticoso, mal pagato, invisibile. E spesso è anche dannoso: logora il corpo, spezza i ritmi, toglie tempo alla vita. Ma chi lo dice? Chi ha ancora il coraggio di parlare di riduzione dell’orario, di redistribuzione, di dignità? Chi ha ancora la forza di dire che non basta “creare posti”, bisogna creare senso, progetto, futuro?

Il Primo Maggio dovrebbe essere il giorno della rabbia buona, della coscienza vigile, della memoria attiva. Invece è diventato un briefing motivazionale da campagna elettorale. E allora va detto, anche se non conviene: finché il lavoro sarà solo strumento di ricatto e non spazio di libertà, il Primo Maggio resterà solo una data sul calendario. E la festa, quella vera, resterà un’utopia da guadagnarsi con la lotta. Non con un videomessaggio.