Il Governo Meloni sta vincendo la guerra ai poveri

Finora il Governo Meloni ha mantenuto poche delle promesse fatte in campagna elettorale: dal «blocco navale» contro i migranti all’abolizione della Legge Fornero, fino alla cancellazione delle accise sui carburanti. C’è però un impegno che è stato mantenuto: il centrodestra aveva garantito una stretta ai sussidi contro la povertà, e stretta  effettivamente è stata. Meloni […]

Mag 16, 2025 - 22:20
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Il Governo Meloni sta vincendo la guerra ai poveri

Finora il Governo Meloni ha mantenuto poche delle promesse fatte in campagna elettorale: dal «blocco navale» contro i migranti all’abolizione della Legge Fornero, fino alla cancellazione delle accise sui carburanti. C’è però un impegno che è stato mantenuto: il centrodestra aveva garantito una stretta ai sussidi contro la povertà, e stretta  effettivamente è stata. Meloni e i suoi fratelli sono passati dalle parole ai fatti e hanno dichiarato guerra ai poveri. Non solo: la stanno pure vincendo.

Lo dice l’Istat, che da circa un anno è presieduto dall’economista Francesco Maria Chelli, nominato su indicazione del ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo e quindi certamente non tacciabile di avversione nei confronti dell’esecutivo.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto nazionale di statistica sulla redistribuzione del reddito in Italia, le politiche del Governo hanno allargato le disparità economiche nel nostro Paese: l’indice Gini – utilizzato a livello internazionale per misurare la disuguaglianza nella distribuzione del reddito – è aumentato dal 30,25% del 2023 al 30,40% del 2024. 

«Le modifiche al sistema di tasse e benefici introdotte nel corso del 2024 diminuiscono in lieve misura l’equità della distribuzione dei redditi disponibili delle famiglie», si legge nel rapporto. E a incidere in negativo è stata, in particolare, la revisione delle politiche di contrasto alla povertà.

Senza sostegni
A partire dal primo gennaio 2024, il Governo ha abolito del tutto il Reddito di cittadinanza – che già aveva depotenziato nella seconda parte del 2023 – e lo ha sostituito con una nuova forma di sussidio denominata Assegno di inclusione (Adi). La principale novità è consistita nell’escludere dalla platea dei beneficiari coloro che la destra ha sempre additato come i famigerati «divanisti», ossia le persone considerate «occupabili» in base ai parametri decisi dall’esecutivo. Parametri piuttosto strambi, peraltro: per essere catalogato come «occupabile», infatti, è sufficiente vivere in un nucleo familiare in cui non sono presenti disabili, minorenni o persone sopra i 60 anni e non essere seguiti da programmi di assistenza socio-sanitaria. Così, ad esempio, un cinquantenne povero e disoccupato senza figli piccoli, se è sano, non ha diritto al sostegno dello Stato.

L’esecutivo ha previsto che chi rimane tagliato fuori dall’Adi, se non arriva a 6mila euro di Isee, può richiedere il Supporto per la Formazione e il Lavoro (Sfl): un contributo di 350 euro mensili – salito a 500 euro dal 2025 – che tuttavia si può percepire per un massimo di dodici mesi non rinnovabili e a condizione di iscriversi a programmi di politiche attive del lavoro.

Ebbene, se il Reddito di cittadinanza raggiungeva in media tra gli 1 e gli 1,5 milioni di nuclei familiari, l’Assegno di inclusione arriva a poco meno di 760mila nuclei, a cui vanno sommati i circa 100mila individui che hanno diritto al Supporto per la Formazione e il Lavoro.

Più precisamente, secondo i calcoli dell’Istat la sostituzione del Rdc con l’accoppiata Adi-Sfl ha comportato un peggioramento dei redditi disponibili per circa 850mila famiglie, pari al 3,2% delle famiglie residenti in Italia. La perdita media per questi nuclei è stata di 2.664 euro nel 2024 e ha interessato quasi esclusivamente la fascia più povera della popolazione.

In tre quarti dei casi (620mila famiglie) il nucleo familiare ha totalmente perso il diritto al sussidio, mentre il restante quarto di nuclei (230mila) è risultato svantaggiato dal nuovo metodo di calcolo del sostegno economico. 

Per circa 400mila famiglie le nuove politiche del Governo non hanno prodotto alcuna variazione del reddito disponibile: questi nuclei hanno continuato a ricevere lo stesso importo di prima. Un esiguo numero di nuclei (circa 100mila) ha invece riscontrato un beneficio, ritrovandosi in tasca in media 1.216 euro euro in più a fine anno (il vantaggio, per questi nuclei, è derivato dal diverso trattamento dei componenti con disabilità).

Squilibri
Tutte e tre le manovre finanziarie finora varate dal Governo Meloni sono state imperniate su due interventi principali: il taglio dei contributi in busta paga per i dipendenti e la rimodulazione delle aliquote Irpef. 

Il rapporto Istat sulle disuguaglianze analizza in particolare gli effetti della Legge di Bilancio 2024. Dal primo gennaio 2024, sul fronte Irpef, è stato eliminato lo scaglione di reddito tra i 15mila e i 28mila euro – a cui si applicava un’aliquota del 25% – facendolo confluire nel primo scaglione, a cui si applica un’aliquota del 23%. Il centrodestra ha inoltre confermato per tutto il 2024 la decontribuzione di 6 punti nell’aliquota per i lavoratori dipendenti con retribuzione annua lorda inferiore a 35mila euro e di 7 punti per quelli con retribuzione inferiore a 25mila euro.

L’Istat stima che l’effetto incrociato di questi due provvedimenti abbia prodotto un innalzamento dei redditi per 11,8 milioni di nuclei familiari (quasi il 45% del totale dei nuclei residenti nel nostro Paese) i quali hanno riscontrato un beneficio in media di 586 euro in un anno. 

In valori assoluti, ci hanno guadagnato maggiormente le fasce della popolazione più benestanti: il quinto più ricco delle famiglie si è messo in tasca 866 euro in più, mentre il beneficio registrato dal quinto più povero è stato di 284 euro. In valori percentuali, invece, il quinto più ricco ha visto migliorare il proprio reddito dello 0,9%, a fronte dell’1,4% del quinto più povero.

Di contro, l’effetto combinato della riforma dell’Irpef e del taglio contributivo ha peggiorato i redditi disponibili per circa 300mila famiglie (l’1,2% dei nuclei residenti in Italia). Per queste, la perdita annua è stata in media di 426 euro, riconducibile in larga parte al venir meno del diritto al trattamento integrativo dei redditi da lavoro dipendente (il cosiddetto “Bonus Irpef”).

Circa 9,6 milioni di nuclei non sono stati interessati dalla decontribuzione introdotta per i lavoratori dipendenti: per questi, la rimodulazione dell’Irpef ha prodotto un calo delle tasse tradottosi in media in 251 euro in più in tasca a fine anno.

Complessivamente, secondo l’Istat, mettendo insieme tutti gli interventi – passaggio dal Rdc all’Adi, riforma dell’Irpef e taglio dei contributi – l’80,9% delle famiglie italiane ha ottenuto un beneficio medio di 458 euro nel 2024, pari a un aumento medio dell’1% del reddito disponibile (dall’1,6% del quinto più povero allo 0,7% del quinto più ricco). 

Poco meno di 1,2 milioni di nuclei, invece, ha registrato una perdita, che è stata pari in media a circa 2mila euro. La stragrande maggioranza di questi nuclei rientra nel quinto più povero della popolazione italiana, che ci ha rimesso oltre il 23% del proprio reddito.

La sostituzione del Reddito di cittadinanza con l’Assegno di inclusione ha prodotto – stando sempre ai calcoli dell’Istat – un aumento di oltre 0,2 punti dell’indice di Gini. Questo impatto negativo sulle disuguaglianze è stato solo parzialmente compensato dal lieve effetto positivo connesso alla riforma dell’Irpef e al taglio dei contributi, che nel complesso hanno ridotto il coefficiente di 0,05 punti. In conclusione, quindi, l’indice di Gini è aumentato da 30,25% a 30,40%.

Adottando i parametri di Eurostat – che, a differenza dell’Istat, non tiene conto del peso dei canoni di locazione –  l’Italia è il terzo Paese nell’Unione europea con il maggior livello di disuguaglianza, dietro solo a Bulgaria e Lettonia.

Tasche vuote
L’Istat ci dice inoltre – nel suo rapporto sulle “Condizioni di vita e reddito delle famiglie negli anni 2023 e 2024” – che nel nostro Paese il 23,1% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale: parliamo di 13,5 milioni di persone. Il dato è relativo al 2024 ed è in leggero aumento rispetto al 2023, quando si trovava in questa condizione il 22,8% dei residenti.

L’Istituto nazionale di statistica individua tre possibili stati di indigenza: «rischio di povertà», «grave deprivazione materiale e sociale» e «bassa intensità di lavoro». Chiunque rientri in almeno una di queste tre condizioni viene considerato «a rischio di povertà o esclusione sociale».

In particolare, è «a rischio povertà» chi vive in famiglie il cui reddito netto equivalente è inferiore al 60% di quello mediano: nel 2024 si è trovato in questa condizione il 18,9% della popolazione italiana (dato stabile rispetto al 2023) pari a circa 11 milioni di individui.

Viene considerato in condizioni di «grave deprivazione materiale e sociale», invece, chi presenti almeno 7 dei 13 segnali di deprivazioni individuati dall’indicatore Europa 2030, che rilevano l’impossibilità di affrontare spese impreviste o di potersi permettere un pasto adeguato nel 2024 si è trovato in questa situazione il 4,6% della popolazione (era il 4,7% nel 2023) pari a circa 2,7 milioni di individui. 

Quanto alla «bassa intensità di lavoro», rientra in questa categoria chi abbia tra i 18 e i 64 anni e abbia lavorato per un periodo inferiore a un quinto dell’anno solare: nel 2024 si è trovato in questa condizione il 9,2% della popolazione (erano l’8,9% nel 2023) pari a circa 3,9 milioni di persone.

Ricordiamo che, sempre secondo l’Istat, a fine 2023 in Italia si contavano 2,2 milioni di famiglie in povertà assoluta, pari a 5,7 milioni di individui, ossia il 9,7% della popolazione. Si tratta di persone che non hanno denaro sufficiente per comprare beni di prima necessità.

Nel 2023 l’ammontare di reddito percepito dai nuclei familiari più abbienti è stato di 5,5 volte superiore a quello percepito dai più poveri (dato in leggera crescita rispetto al 5,3 del 2022). In media, il reddito annuale delle famiglie italiane è stato pari a 37.511 euro, vale a dire circa 3.125 euro al mese: una cifra che rispetto al 2022 è leggermente superiore in termini nominali (+4,2%) ma che è inferiore in termini reali (-1,6%). In altre parole, i soldi in tasca sono aumentati ma il loro valore è diminuito a causa dell’inflazione.

La flessione dei redditi è stata particolarmente intensa per i nuclei la cui fonte di reddito principale è il lavoro autonomo (-17,5%) o dipendente (-11,0%), mentre per le famiglie il cui reddito è costituito principalmente da pensioni e trasferimenti pubblici si è registrato un incremento pari al 5,5%.

È interessante notare, poi, come la diminuzione dei redditi in termini reali sia stata particolarmente intensa nel Nord-Est (-4,6%) e nel Centro (-2,7%), a fronte di una riduzione assai lieve osservata nel Mezzogiorno (-0,6%) e di una debole crescita nel Nord-Ovest (+0,6%). 

Rispetto al 2007, la perdita di valore dei redditi è stata in media dell’8,7% (-13,2% nel Centro, -11% nel Mezzogiorno, -7,3% nel Nord-est e -4,4% nel Nord-ovest). 

Paghe da fame
È vero che il tasso di occupazione, complice anche la crisi di natalità, sta toccando livelli record in Italia – 63% a febbraio 2025 – ma nell’Unione europea siamo all’ultimo posto e gli inattivi rappresentano ancora un terzo della popolazione.

Inoltre, il lavoro è ancora troppo spesso sotto-pagato. Secondo il nuovo Rapporto mondiale sui salari realizzato dall’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo), agenzia delle Nazioni Unite specializzata sui temi del lavoro e della politica sociale, i salari reali in Italia nel 2024 sono stati inferiori dell’8,7% rispetto a quelli del 2008: si tratta del risultato peggiore tra i Paesi del G20.

Tra le venti nazioni più industrializzate del pianeta, negli ultimi diciassette anni il potere d’acquisto delle retribuzioni è diminuito del 6,3% in Giappone, del 4,5% in Spagna, del 2,5% nel Regno Unito, mentre è aumentato del 15% in Germania e del 20% in Corea del Sud.

Nel nostro Paese – osserva l’agenzia dell’Onu – l’impoverimento dei salari è stato particolarmente significativo in seguito alla crisi finanziaria globale del 2009, mentre nell’ultimo triennio ha giocato un ruolo determinante l’inflazione: nel 2024 i salari reali in Italia sono saliti del 2,3%, ma questa crescita non è stata sufficiente a compensare l’aumento del costo della vita, che aveva trascinato giù le retribuzioni reali del 3,3% nel 2022 e del 3,2% nel 2023. E per l’Istat le retribuzioni contrattuali reali di marzo 2025 sono ancora inferiori di circa l’8% rispetto a quelle di gennaio 2021.

L’Ilo sottolinea inoltre come l’impennata dell’inflazione registrata a partire dal 2022 abbia colpito in misura maggiore i lavoratori a basso reddito, poiché questi tendenzialmente spendono la quota più consistente del proprio salario in beni e servizi come l’alloggio, le bollette energetiche e i beni alimentari, che più di altri hanno risentito dell’ondata inflattiva.

Secondo quanto si legge nel rapporto – in mancanza di un salario minimo fissato per legge – negli ultimi dieci anni gli accordi siglati tra sindacati e associazioni datoriali hanno portato ad aumenti salariali del 15% in termini nominali, che si sono però tradotti in una perdita del 5% del potere d’acquisto delle buste paga. 

Così la produttività del lavoro è crollata. Nei Paesi ad alto reddito – spiega l’Ilo – la produttività in media è salita del 30% tra il 1999 e il 2024 , mentre in Italia è diminuita del 3%. A partire dal 2022, peraltro, complice anche l’inflazione, si è registrata un’inversione di tendenza, con la produttività che è cresciuta più dei salari reali.

Effetto Austerity
Lo scorso 18 marzo, in audizione al Senato, l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato che negli ultimi quindici anni in Europa «l’austerità e i salari bassi hanno compresso la domanda interna». «Abbiamo sacrificato la spesa pubblica e compresso i nostri salari», ha ammesso. E ancora: «Pensavamo che per competere con gli altri Paesi europei dovessimo tenere i salari più bassi come uno strumento di concorrenza». «Nel frattempo abbiamo continuato a diventare sempre più poveri, quindi forse l’austerità non era la strategia giusta».

Detto da colui che ha guidato la Banca centrale europea proprio negli anni segnati dalle più inflessibili politiche del rigore sui conti pubblici, se non è un ammissione di colpa, poco ci manca. Le disuguaglianze di oggi, insomma, hanno radici profonde. Ma i sedicenti «patrioti» non sembrano interessati a contrastarle. Anzi.