Dobbiamo smetterla di dividere le donne in sante e puttane, anche se sono maestre dei nostri figli

Nella nostra società, le educatrici sono investite di un'aura virginale che non le concepisce come persone a tutto tondo, a causa della loro vicinanza al contesto dell’infanzia. Continuare a dividere le donne in “sante” e “puttane” per rispettare una sorta di decoro e morale universale, soprattutto quando sono le maestre dei nostri figli, non fa che alimentare un forte pregiudizio in chi dispone liberamente del proprio corpo senza che questo influenzi il proprio lavoro. L'articolo Dobbiamo smetterla di dividere le donne in sante e puttane, anche se sono maestre dei nostri figli proviene da THE VISION.

Apr 30, 2025 - 18:49
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Dobbiamo smetterla di dividere le donne in sante e puttane, anche se sono maestre dei nostri figli

Alcuni giorni fa Elena Maraga, ventinovenne educatrice di un asilo nido in provincia di Treviso, si è vista recapitare per raccomandata la notifica di licenziamento per giusta causa – nonostante, sulla base del contratto, non ci siano criticità da muoverle, come evidenziato dai sindacati – perché la sua presenza su OnlyFans sarebbe in contrasto con i valori dell’istituto in cui lavorava, che è una scuola paritaria cattolica. L’esistenza del profilo dell’educatrice sulla piattaforma di contenuti a pagamento – di cui la parte più nota e più consistente riguarda quelli erotici e/o pornografici – è stata segnalata dai genitori dei bambini, dopo che il padre di uno di loro ha acquistato il materiale sul portale – e fin qui, tutto lecito – e l’ha condiviso in una chat di calcetto; se non fosse cringe, l’episodio sembrerebbe una barzelletta per quanto è stereotipato, ma purtroppo non fa ridere per niente: il contenuto è passato di chat in chat fino a raggiungere diversi genitori di quell’asilo, pronti a impugnare i forconi. Se è vero che il caso non rientra propriamente nel “revenge porn”, dato che le foto diffuse non erano private, erano però riservate a chi le pagava, per cui – anche al di là della comunque problematica diffusione del materiale – Maraga è stata danneggiata anche sul piano economico, danno che si aggiunge a quello della gogna mediatica e del licenziamento.

La vicenda sarebbe già di per sé indicativa della società in cui viviamo: lei, vittima di condivisione non consensuale di materiale intimo, viene licenziata, nonostante la sua professione parallela di creatrice di contenuti per adulti non interferisca con quella di educatrice (e infatti fino alla denuncia non c’era stata alcuna lamentela nei suoi confronti). Per la persona che ha fatto girare il materiale, invece, al momento non sono stati presi provvedimenti e sicuramente non si è scatenata nessuna gogna mediatica, che invece ha colpito quella che è stata prontamente ribattezzata dai media – che non vedono l’ora di poter strizzare l’occhio alle più imbarazzanti commedie sexy all’italiana degli anni Settanta – “la sexy maestra”.

La notizia è troppo ghiotta per sfuggire al governo e infatti il Ministero dell’Istruzione, come già accade per i dipendenti pubblici, sta lavorando a un codice etico da estendere a tutto il personale scolastico, relativo all’uso dei media e dei social, sul modello di quello a cui devono attenersi i dipendenti pubblici, che sono tenuti a “evitare dichiarazioni, immagini o commenti che possano danneggiare il prestigio o l’immagine dell’amministrazione”. Abbastanza vago da non suscitare più di tante polemiche, ma anche da far finire dentro il calderone, potenzialmente, qualsiasi cosa; anche perché, per esempio, nel caso di Elena Maraga non sono contestate le tipologie degli scatti – come avrebbe senso se questi riguardassero in qualche modo il suo lavoro di educatrice o il luogo di lavoro – ma il fatto stesso che quelli esistano.

Anche la Fism (Federazione italiana scuole materne) di Treviso è intervenuta stilando un codice etico per disciplinare il comportamento degli insegnanti sui social, che dovrà essere votato nella prossima assemblea provinciale del 30 aprile; per il momento, il presidente ha dichiarato che “decoro e riservatezza dovrebbero essere parte del bagaglio di ciascun insegnante”. E, se è sacrosanto mantenere la correttezza professionale e preservarla dalle interferenze di eventuali altre attività, quando c’è di mezzo il “decoro” la faccenda è sempre potenzialmente problematica. Come sottolineava già Tamar Pitch nel suo saggio del 2013 Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, “il decoro è ciò che viene proposto e imposto a un ceto medio impoverito e impaurito. Il decoro divide tra perbene e permale e funziona per ottenere consenso. Decoro, merito, disciplina sono le parole d’ordine e gli obiettivi di politiche che legittimano la paura contro ciò che è sporco, contaminante, eccessivo, minaccioso per l’ordine e la sicurezza”.

Ecco perché nel mirino sociale del decoro, guarda caso, ci sono a pieno titolo le categorie indecorose per eccellenza, come migranti e prostitute, da marginalizzare, tenere ai margini, per non contaminare i cittadini perbene, quelli in cui instillare la paura e il disprezzo per dare loro un capro espiatorio su cui concentrare l’attenzione; sia mai che la rivolgano ad altri temi. Ma sono a rischio di caderci, in quel mirino, tutte le donne, costantemente sottoposte allo scrutinio della decenza, e specialmente quelle che escono dai margini dei ruoli sociali prefissati per loro.

In particolare, le educatrici – il femminile non è casuale:  sono donne quasi il 99% delle maestre di ruolo nella scuola dell’infanzia e il 96% nella primaria, percentuali che scendono un po’, pur rimanendo maggioranza netta, nella secondaria di primo grado – sono sotto la lente d’ingrandimento per il loro ruolo di guida e figure destinate all’accudimento nei primi anni dell’infanzia, che le assimila troppo spesso alle madri; e queste, in Italia in particolare – vuoi per influenza della religione cattolica, vuoi per una divisione dei ruoli di genere che dagli anni ‘50 ha fatto qualche passo avanti ma che è ancora difficile eradicare dai comportamenti – sono investite di un’aura virginale che non le vede come persone a tutto tondo con una vita privata, e tantomeno una sessualità, un’autonomia di giudizio e consapevolezza del proprio corpo. Figurarsi se hanno persino l’aggravante di guadagnare dalle proprie foto sexy e non si limitano a scattarle.

Non a caso, quando le maestre escono dai rigidi tracciati disegnati per loro dalla morale patriarcale, provocano scompiglio, forse più ancora delle altre donne, per effetto del loro contatto con l’infanzia. Il caso di Elena Maraga è forse il più recente, ma di simili ce ne sono molti. E non è nemmeno una novità del nostro millennio, plasmato dalle piattaforme di condivisione delle immagini, dalle chat e dai social: tra il XIX e XX secolo, infatti, sono molti i casi di maestre stigmatizzate dalla società ed emarginate per il loro stile di vita. Pur non portando avanti una condotta immorale, non erano mogli né madri, ma lavoravano fuori casa vivendo del proprio lavoro, anche se con uno stipendio per legge pari ai due terzi di quello dei colleghi maschi; spesso erano costrette lontano dai luoghi d’origine, per effetto della Legge Casati prima e della Legge Coppino poi, che, prolungando l’obbligo scolastico, avevano aumentato il fabbisogno di insegnanti, specialmente nelle aree rurali dove le scuole dovettero essere ampliate; come racconta la scrittrice e divulgatrice femminista Carolina Capria, le donne videro una possibilità professionale nell’ambito dell’insegnamento, non ancora occupato dagli uomini; così, dalla fine dell’800, numerose giovani donne si dotarono del patentino necessario a insegnare e dell’attestato di moralità richiesto, rilasciato dal sindaco – loro datore di lavoro diretto – e partirono alla volta delle province più profonde, dove erano essenzialmente sole, sotto l’occhio giudicante della comunità.

Per questi motivi, quello delle maestre era considerato uno stile di vita sospetto per l’epoca e loro  costantemente sottoposte allo scrutinio morale. Italia Donati era una di loro: ragazza poco più che ventenne, per tenersi il lavoro dovette accettare di vivere in una dépendance della casa del sindaco del piccolo paese toscano di Porciano alla cui scuola era stata destinata, riuscendo comunque a resistere alle sue avance indesiderate, aka molestie sessuali. Nonostante ciò, quella vessata dal giudizio della gente – che la accusò pure di aver abortito – fu lei, non il sindaco molestatore e, dopo anni di accuse infamanti e persecuzioni, si suicidò. La sua storia fece un certo scalpore, ma non rimase un caso isolato, come emerge nell’articolo di Matilde Serao Come muoiono le maestre, comparso nel 1886 sul Corriere di Roma e poi su altre riviste.

Non è, quindi, una novità che le donne debbano dare conto della propria condotta morale anche al lavoro, tanto più se quel lavoro è quello della maestra o dell’educatrice, in cui, come sottolinea Capria, si portano dietro il loro ruolo di moglie e madre. Nei secoli non è cambiata l’ignominia in cui viene gettata chi è considerata immorale, anche se cambiano i confini di ciò che la società di volta in volta considera tale: un tempo era fare una passeggiata da sola, oggi è stare su OnlyFans domani sarà qualcos’altro, ma le donne continuano a essere chiamate a rispondere della propria moralità. E nonostante tutto – non si possono negare i passi avanti fatti nei decenni, né la consapevolezza sorta negli ultimi anni sul tema dell’autodeterminazione e in generale sulle tematiche femministe, anche se deve preoccupare la frattura tra la sensibilità degli uomini e le donne della Gen Z – ancora esiste un forte pregiudizio nei confronti di quelle che dispongono liberamente del proprio corpo, soprattutto se ci guadagnano; ecco che immediatamente vengono incasellate nella definizione di “puttane”, l’unica alternativa possibile che una società patriarcale e sessuofobica ci dà a quella di “sante”, attribuzione che ancora troppo spesso spetta alle madri – a loro volta imprigionate in una prospettiva monodimensionale, particolarmente apprezzata dall’attuale governo che esalta le donne solo in quanto madri, salvo poi lasciare ogni responsabilità al loro spirito di sacrificio, invece che fornire dei veri sostegni sociali – e, per estensione, alle maestre. In questo dualismo senza scampo a perderci è chiunque rifiuti di rientrare in una casella predeterminata e scelga di ribellarsi alle definizioni univoche: né sante, né puttane.

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