Da stereotipo a narrazione autentica: il marketing racconta davvero la figura materna?
Per secoli, la maternità è stata raccontata con un’unica lente: quella domestica. La madre angelo del focolare, custode della casa, protettrice silenziosa. Platone, ad esempio, riduceva la virtù femminile alla capacità di gestire la casa e obbedire al marito, quasi fosse un’estensione del mobilio. A Sparta, le donne ricevevano un’educazione fisica pari a quella degli […] The post Da stereotipo a narrazione autentica: il marketing racconta davvero la figura materna? appeared first on The Wom.


Per secoli, la maternità è stata raccontata con un’unica lente: quella domestica. La madre angelo del focolare, custode della casa, protettrice silenziosa. Platone, ad esempio, riduceva la virtù femminile alla capacità di gestire la casa e obbedire al marito, quasi fosse un’estensione del mobilio. A Sparta, le donne ricevevano un’educazione fisica pari a quella degli uomini, ma senza il diritto di possedere o decidere. E, nel Medioevo, la donna era relegata a ruoli familiari, privata di un’identità che non fosse legata a marito e figli. Ma dietro quella facciata di docilità, iniziavano a germogliare le prime scintille di ribellione, pronte a esplodere secoli dopo.
Con la rivoluzione industriale, lo scenario cambia. Le donne iniziano a entrare nel mondo del lavoro, non per scelta ma per necessità, sostituendo gli uomini chiamati al fronte. E così, tra le mura delle fabbriche, accanto al rumore assordante dei macchinari, inizia a risuonare una nuova consapevolezza: il diritto di essere riconosciute, viste, pagate.
Ma anche in questo contesto, il ruolo centrale materno non scompare. Anzi, si aggrava. Le donne operaie sono spesso anche madri, costrette a conciliare il lavoro in fabbrica con il lavoro domestico. Si alzano all’alba, trascorrono ore tra telai e macchinari, e tornano a casa a notte fonda per accudire i figli, cucinare, lavare, educare. Il doppio carico di lavoro non viene riconosciuto, né tantomeno retribuito.
Persino il lavoro viene relegato a mansioni considerate “femminili”: cucito, tessitura, cura dei bambini. Anche il ruolo di insegnante, inizialmente, è concepito come un’estensione del compito materno
Insegnare nelle scuole elementari significa continuare a prendersi cura dei bambini, educarli, trasmettere valori morali – un lavoro che non disturba l’ordine sociale perché resta confinato all’ambito della cura e dell’accudimento. Non a caso, le donne che insegnano sono viste quasi come “madri surrogate”, custodi della morale più che vere professioniste dell’istruzione.
La madre è vista come colei che rinuncia, che accetta, che si annulla. Ma a quale prezzo?
Questa idealizzazione soffocante finisce per trasformare la maternità in un dovere anziché in una scelta. Una gabbia dorata che impedisce alla donna di essere altro, di esprimersi fuori da quel ruolo di “angelo del focolare”. Un’immagine che le pubblicità degli anni ’50 e ’60 riprendono in modo quasi ossessivo, rappresentando madri felici e grate mentre lucidano pavimenti o stirano camicie.
Spot che ripetono lo stesso mantra: il dono perfetto per la mamma è un elettrodomestico, un ferro da stiro, un set di pentole. Oggetti per mantenere la casa in ordine, perché una madre è davvero ‘buona’ solo se tutto intorno a lei è impeccabile.
La rottura del paradigma: quando la maternità diventa multifaccettata
Con l’inizio degli anni 2000, il marketing inizia a raccontare le madri non più come angeli del focolare, ma come donne complete. Non più solo casalinghe, ma anche lavoratrici, imprenditrici, sportive, sognatrici. I brand iniziano a includere donne di età diverse, culture diverse, background diversi.
Questa evoluzione si riflette nel linguaggio utilizzato. Non si parla più solo di doni materiali, ma di esperienze, emozioni, connessione.
La festa della mamma diventa così un’occasione per raccontare la maternità nella sua complessità, dalle madri single alle madri che lavorano, fino alle madri che lottano contro stereotipi e pregiudizi
Un esempio è la campagna #RisveglialaConTenerezza di Kinder Brioss, che ha utilizzato la realtà aumentata per creare messaggi personalizzati, stimolando un legame emotivo tra brand e consumatori. O Gillette Venus, che ha raccontato il rapporto madre-figlia attraverso piccoli gesti quotidiani, spostando il focus dall’oggetto al sentimento.
LEGGI ANCHE – Essere madri in Italia
E se fosse “femminismo di facciata?”
Nonostante il marketing moderno cerchi di raccontare una maternità autentica, il rischio di un “femminismo di facciata” è dietro l’angolo. Il passaggio dal promuovere elettrodomestici al raccontare emozioni non è sempre sincero. Spesso, dietro campagne apparentemente inclusive, si nasconde ancora una narrazione stereotipata e superficiale.
Il neuromarketing e l’era delle emozioni
Negli ultimi anni, le aziende hanno affinato le strategie pubblicitarie grazie alle neuroscienze. Il neuromarketing, attraverso lo studio delle reazioni cerebrali dei consumatori, ha permesso ai brand di creare campagne sempre più emozionali e personalizzate.
Oggi, il marketing dunque ha una grande responsabilità: quella di raccontare storie vere. Non solo di madri perfette, ma anche di madri imperfette. Di donne che scelgono di non essere madri. Di madri che lavorano, che combattono, che falliscono. Di maternità che non sono solo un abbraccio dolce al mattino, ma anche notti insonni, paura, stanchezza, rinascita.
E qui entra in gioco il concetto di autenticità. Perché se è vero che il marketing oggi parla di emozioni, quante di queste emozioni sono davvero reali? E quanto, invece, è solo una costruzione strategica per vendere? Lo abbiamo chiesto a Luna Mascitti, fondatrice di Mio Cugino ADV, che ha dedicato il suo lavoro anche a questo: raccontare la maternità senza filtri. Un marketing che non si limita a emozionare, ma che cerca di restituire autenticità.
Intervista a Luna Mascitti
Negli ultimi anni, le campagne pubblicitarie legate alla festa della mamma hanno puntato sempre più sulle emozioni. Quanto ritieni sia importante bilanciare emozionalità e autenticità nelle strategie di marketing?
L’emozione è la chiave per attivare la memoria e la decisione d’acquisto, come dimostrano numerosi studi di neuromarketing. Tuttavia, l’emozione fine a sé stessa rischia di diventare manipolativa o, peggio, di risultare artificiale, cosa che sempre più si vede oggi sui social, purtroppo. Il cervello umano, però, è estremamente abile nel riconoscere l’incongruenza tra ciò che si dice e ciò che si percepisce. Se il pubblico avverte che l’emozione è costruita a tavolino, scatta il rigetto per il brand. Perciò, il bilanciamento ideale è raggiunto quando l’emozione non è un fine, ma una conseguenza naturale di una narrazione sincera, coerente con i valori del brand, ecco perché il vero punto di forza oggi è l’autenticità: raccontare storie vere, imperfette, quotidiane.
Le aziende oggi cercano sempre più di evitare il cosiddetto pink washing. Come possono evitarlo?
Il “Pink Washing” nasce quando il femminismo (o la valorizzazione della figura materna) viene sfruttato superficialmente per fini commerciali, senza azioni reali a supporto. Le aziende possono evitarlo in tre modi:
- Coerenza tra comunicazione e azioni: Se si celebra la maternità, bisogna garantire alle proprie dipendenti politiche di supporto reale alla genitorialità.
- Inclusività reale: Rappresentare madri single, coppie LGBTQ+, mamme lavoratrici, mamme con disabilità. La maternità ha mille volti, non uno solo.
- Collaborazione con voci autentiche/professionisti: Coinvolgere direttamente madri, attiviste, psicologhe o esperti del settore che possano portare una narrazione veritiera e profonda

Il neuromarketing ha il potere di creare legami emotivi forti tra brand e consumatori. Ma come si può evitare che le emozioni vengano strumentalizzate solo per vendere?
ll neuromarketing etico non sfrutta le emozioni: le ascolta e le rispetta. L’obiettivo non è “commuovere per vendere”, ma connettersi per comprendere. C’è una linea sottile tra neuromarketing demonizzato ed etico. Spesso, infatti, essendo una disciplina che è in grado di “manipolare” il consumatore si pensa che sia poco etico, in realtà dipende sempre dall’uso che se ne fa: banalmente basta usare il neuromarketing per creare esperienze d’acquisto che agevolino il consumatore e campagne di comunicazione che comprendano le loro reali esigenze del cliente, offrendo poi come risposta un prodotto o un servizio davvero utile o desiderato, piuttosto che usare il neuromarketing solo per vendere di più.
Il concetto di maternità sta dunque cambiando, pensi che il marketing stia davvero al passo o continui a rifugiarsi in immagini rassicuranti e alquanto stereotipate?
In parte sì, ma è difficile biasimare o criticare i brand di fronte a un contesto mediatico feroce come quello attuale. Molti brand ancora si rifugiano in immagini iconiche: la mamma dolce, presente, sorridente, instancabile. È una figura rassicurante sicuramente ormai stereotipata. La maternità oggi è anche stanchezza, ambivalenza, imperfezione, libertà. Le marche più innovative stanno già intercettando questo cambiamento: pensiamo a campagne che mostrano mamme che lottano, sbagliano, si realizzano anche al di fuori del ruolo materno. Tuttavia, la maggioranza tende ancora a evitare i territori più complessi, per timore della risposta del pubblico che diventa sempre più critico.
C’è una storia di una madre che hai incontrato nel tuo lavoro e che ti ha fatto riconsiderare il modo in cui le aziende raccontano la festa della mamma?
Quotidianamente conosco mamme che lottano nella loro vita per ritagliarsi un po’ di indipendenza per sviluppare quel progetto che è nell’ultimo cassetto del loro comodino dei sogni, schiacciato da impegni quotidiani dei figli e da mariti che non credono abbastanza in loro e nelle loro potenzialità. C’è sempre qualcosa o qualcuno che viene prima ed è sempre più importante. Le mamme finiscono per essere l’ultima delle loro priorità. La campagna che mi ha fatto riconsiderare il modo in cui le aziende raccontano la festa della mamma non c’è ma vorrei tanto che fosse questa: regalare alla mamma del tempo per se stessa, che sia una giornata alla spa, un’ora di skincare, una passeggiata in montagna, un buon libro, il denominatore comune è la solitudine, il tempo per sé stessa, il mettersi come priorità almeno un giorno l’anno.
Confesso (con una nota di orgoglio) che mio marito ogni anno, per la festa della mamma, mi regala un weekend alla spa da sola: potrei regalarmelo anche da sola, ma riceverlo come regalo mi dà la certezza che comprende che essere madre non significa scordarsi di essere donna.
Raccontiamo la verità della maternità
La maternità dunque è fatta di sorrisi e abbracci, certo. Ma è anche fatta di piccole e grandi sfide, di giornate infinite e di momenti di puro caos. La verità è che dietro ogni mamma c’è una storia, unica e irripetibile. C’è la stanchezza che si nasconde dietro un sorriso, il coraggio di chi lotta per ritagliarsi uno spazio tutto suo, il desiderio di essere vista non solo come madre, ma anche come donna.
Oggi il marketing ha l’occasione di fare qualcosa di diverso: mettere al centro le storie vere, senza maschere e senza filtri
Raccontare la maternità per ciò che è – un viaggio intenso, fatto di amore ma anche di dubbi, di leggerezza ma anche di pesi da portare.
Forse è arrivato il momento di lasciare da parte le frasi fatte e ascoltare davvero. Perché le madri non chiedono regali perfetti. Chiedono di essere riconosciute, comprese, celebrate per quello che sono, ogni giorno. E in questo, il marketing può fare molto più di una bella campagna: può diventare un ponte tra ciò che vediamo e ciò che spesso resta nascosto.
The post Da stereotipo a narrazione autentica: il marketing racconta davvero la figura materna? appeared first on The Wom.