Chi la canta e chi la suona. Ma Genova non è uno spartito
Otto candidati, mille sigle, troppi slogan. Tra promesse a effetto, bonus a pioggia, retorica resistenziale e marketing di quartiere, la politica genovese riscopre l’arte della moltiplicazione del nulla. Ma in […]

Otto candidati, mille sigle, troppi slogan. Tra promesse a effetto, bonus a pioggia, retorica resistenziale e marketing di quartiere, la politica genovese riscopre l’arte della moltiplicazione del nulla. Ma in mezzo alla Babele, una voce stona. E forse proprio per questo merita attenzione.
In un panorama politico genovese dominato da slogan vuoti e candidati-spettacolo, la figura di Francesco Toscano emerge come un’alternativa lucida e necessaria. Presidente di Democrazia Sovrana e Popolare (DSP), Toscano si presenta alle comunali del 2025 con un programma che affronta con serietà le ferite aperte della città, senza retorica e senza compromessi con i poteri forti.
Il suo progetto per le periferie non è un elenco di promesse, ma un piano di ricostruzione urbana e sociale fondato sulla dignità. Parla di investimenti pubblici reali, non delegati agli speculatori: edilizia popolare, spazi civici, sanità territoriale, trasporti. Propone un modello produttivo basato su lavoro stabile, tecnologie verdi, manutenzione e filiere locali. Il tutto in una cornice sovrana e popolare: assemblee di quartiere con poteri vincolanti, partecipazione reale, controllo democratico dal basso. È una visione che riscopre l’autonomia locale, la giustizia sociale, la rigenerazione non solo fisica ma politica delle città.
Toscano non è un candidato perfetto, e non pretende di esserlo. Ma è l’unico a sfidare davvero il paradigma dominante, rompendo con le logiche del compromesso e della continuità. È il voto di chi non si rassegna al meno peggio. Di chi vuole cambiare, dal basso, con dignità.
Nel suo programma, la sicurezza urbana è affrontata in chiave strutturale: prevenzione, inclusione, controllo del territorio. Propone il rafforzamento del Nucleo Anti-Degrado della Polizia Locale, la figura dell’Operatore di Quartiere, videosorveglianza diffusa, ordinanze per la malamovida, sgravi per gli agenti che abitano nei quartieri difficili, volontariato civico e Controllo di Vicinato.
Altro tema cruciale è la sanità pubblica. Toscano denuncia il disastro ligure e propone un modello più accessibile, giusto e territoriale, mettendo al centro il diritto alla cura e le condizioni di chi lavora nei servizi sanitari.
Questa è la Genova che immagina: non una città vetrina, ma una città vera. Che non si piega ai poteri forti, ma che si rialza, sovrana.
C’è chi si presenta come volto nuovo, ma arriva con lo zaino pieno di vecchie sigle. Silvia Salis, ex atleta e vicepresidente del CONI, è la candidata sindaca del centrosinistra. Un nome sventolato come “sintesi civica”, ma in realtà espressione di un compromesso a tavolino tra PD, M5S, Verdi-Sinistra, Italia Viva, Azione e una galassia centrista.
La proposta? Una dichiarazione d’intenti in dieci punti, zeppa di parole come “inclusione”, “sostenibilità”, “futuro”. Ma povera di contenuti verificabili. Nessun piano urbanistico serio, pochi numeri su sanità, trasporti o edilizia sociale. È la solita sinistra che ripete da vent’anni lo stesso copione: molta visione, poca realtà.
Ma ciò che colpisce è l’eterogeneità del fronte che la sostiene. Come può un progetto “di cambiamento” essere credibile se sostenuto dagli stessi partiti che hanno approvato tagli al welfare, sostenuto privatizzazioni, leggi repressive contro i lavoratori e un europeismo tecnocratico senza respiro sociale?
Salis incarna il volto gentile di una sinistra disinnescata, che piace ai giornali ma che i quartieri popolari non votano più. Non per antipatia: per delusione. È la sinistra che parla di ambiente e firma per il rigassificatore. Che dice “diritti” e si allea con chi ha tagliato la scuola pubblica. Il centrosinistra senza centro. E senza sinistra.
Ecco perché, curriculum sportivo a parte, la sua candidatura appare come l’ennesimo lifting politico. Un volto nuovo per un’alleanza logora. Una corsa che sembra progressista solo in superficie.
Non serviva il cappello tricolore per capire che Pietro Piciocchi non è un outsider. È il volto sobrio dell’amministrazione uscente, promosso da vice a candidato sindaco per continuità dinastica con Marco Bucci. Assessore al bilancio e ai lavori pubblici per sette anni, Piciocchi è la prosecuzione naturale di un sistema che ora chiede il bis, con il timbro rassicurante del “tecnico”.
Il suo programma? Otto “scelte per Genova” che sembrano uscite da un catalogo pubblicitario: sicurezza, digitale, mobilità, “Genova verde”, cultura, accoglienza. Una Genova per ogni esigenza. Ma dietro il packaging si nasconde un progetto conservatore, espansivo, urbanisticamente aggressivo.
Piciocchi promette 20.000 nuovi posti di lavoro, senza spiegare dove, come e con quali strumenti. Parla di un “ciclo economico favorevole”, dimenticando che quel PIL è trainato da logistica e turismo: settori a bassa stabilità e alta precarietà. Altro che sviluppo strutturale.
Anche il welfare resta nel vago. Azzerare le liste d’attesa per asili e case popolari? Con i privati. Nessuna parola sul blocco degli sfratti, sugli affitti brevi, sulla speculazione che sta svuotando i quartieri. La risposta? Bonus e partnership. Appalti, non diritti.
E poi il solito repertorio securitario: vigile di quartiere, bonus taxi, navette over 70. Misure utili, forse, ma parziali. Senza una visione integrata su sanità, spazi pubblici e servizi sociali, restano pannicelli caldi.
Piciocchi è il volto moderato del blocco di potere che unisce Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, UDC, Noi Moderati e le civiche bucciste. Ha l’apparato, ma non l’anima. La sua è una Genova che cresce solo per chi se la può permettere.
È la destra delle infrastrutture senza redistribuzione, dei parcheggi più che dei parchi, dell’efficienza senza equità. La Genova che si trasforma, ma senza ascoltare. Che rilancia lo sviluppo, ma taglia la partecipazione.
In questo contesto, Piciocchi non è il male assoluto. È l’uomo del sistema. La prosecuzione dell’urbanesimo liberale con altri mezzi.
Tra le candidature di sinistra ci sono due nomi che meritano attenzione – e una domanda: perché sono separate? Perché Cinzia Ronzitti (Partito Comunista dei Lavoratori) e Antonella Marras (Sinistra Alternativa) non hanno unito le forze?
La risposta è sempre la stessa: identità, divergenze, ego. Ma i programmi si somigliano, le battaglie anche. E allora?
Ronzitti si presenta per la terza volta. Comunista autentica, parla di reddito di disoccupazione, trasporto pubblico gratuito, scuole migliori, difesa dei quartieri. Anticapitalista, antifascista, antiNATO. Diretta, semplice, radicale. Una candidatura da marciapiede, non da talk show.
Marras guida una lista che unisce Rifondazione, PCI e Sinistra Anticapitalista. Il programma è dettagliato, tecnico, combattivo: no al riarmo, sì al salario minimo, recupero del patrimonio abitativo, stop agli appalti selvaggi, consultori, cultura decentrata, spazi sociali. È la sinistra che sa di cosa parla.
Ma entrambe restano isolate. Parlano a un pubblico già convinto. Rischiano di contare poco. E di sparire, ancora una volta, sotto la soglia.
A chiudere la danza troviamo Mattia Crucioli e Raffaella Gualco. Due candidati fuori dai blocchi principali, ma anche fuori da ogni tentativo di convergenza.
Crucioli, ex M5S, oggi leader di Uniti per la Costituzione, è il campione dell’anti-atlantismo, del costituzionalismo identitario e del pacifismo integrale. Il suo programma è un mix tra visione geopolitica e difesa civica, più ideologia che amministrazione. Ma chi lo vota, sa cosa vota: un politico coerente, forse troppo.
Gualco, civica di “Genova Unita”, rappresenta un’area associativa sobria e concreta. Il suo programma è una lista di buoni propositi: manutenzione, verde, scuola, decentramento. Ma manca il mordente, il conflitto, la visione di rottura.
Due voci fuori dal coro. Presenti, ma afone. Che cantano da sole.
In una campagna dove molti hanno sussurrato per non disturbare le centrali di potere nazionali, la candidatura che più ha rotto la recita è quella di Francesco Toscano. Non perché sia il più simpatico. Ma perché ha fatto il gesto più eversivo che oggi si possa compiere: dire cose chiare.
Sul lavoro. Sulla sovranità. Sulla gestione diretta dei servizi. Sulla politica come potere, e non come vetrina.
Non è un santo. Non è un feticcio. Ma è l’unico che prova a cambiare spartito.
E a Genova, dove da anni la politica è una filastrocca stonata, già questo è qualcosa.