Se il Pride vuole sopravvivere senza sponsor, deve tornare a essere ciò che è sempre stato: politico.
Il Pride non è mai stato un evento neutro, ma è nato come risposta politica alla repressione. Oggi, che sempre più sponsor si sfilano seguendo il nuovo clima culturale, quella natura torna a farsi urgente. Chi scende in piazza, lo fa per scelta. E quella scelta è una presa di posizione. Non ci si può dire neutrali mentre i diritti vengono smantellati. È il momento di smascherare chi lo usa come vetrina: non basta una bandiera arcobaleno per cambiare le cose, servono presenza, continuità e impegno. L'articolo Se il Pride vuole sopravvivere senza sponsor, deve tornare a essere ciò che è sempre stato: politico. proviene da THE VISION.

Il mese del Pride è alle porte, ma il contesto in cui si celebrerà quest’anno è tutt’altro che festoso. Il ritorno di Trump alla presidenza statunitense, la legge ungherese che mette al bando i Pride e in Italia il ventilato “registro della disforia di genere” destinato a monitorare i percorsi di affermazione di genere, segnano un grave cambio di passo. Non si tratta solo di un arretramento politico in termini di diritti civili: è il segnale di un clima culturale che sta cambiando, un campanello d’allarme per chi pensava che certi traguardi fossero ormai consolidati. Ma l’erosione dei diritti avviene spesso così: lentamente, con un gesto alla volta, con un silenzio in più.
È in questo contesto che torna a essere urgente una riflessione già ampiamente affrontata – e mai davvero risolta – all’interno del movimento LGBTQ+: il rapporto con il marketing e le grandi aziende durante il mese del Pride. Per anni ci si è chiesti, spesso con toni accesi, se e come fosse lecito accettare il sostegno dei brand. Alcune associazioni hanno fatto una scelta consapevole: accettare le risorse private sì, ma chiedendo in cambio alle aziende qualcosa di più sostanziale di una sponsorizzazione glitterata. Policy di inclusione interne, sportelli antidiscriminazione, percorsi di formazione obbligatori: strumenti concreti che potessero restituire qualcosa di tangibile alle comunità LGBTQ+ coinvolte. Altre associazioni, invece, si sono accontentate. Hanno concesso spazi, visibilità e presenza nei cortei senza domande, senza condizioni. E così il Pride si è trasformato, in parte, in una passerella dove il brand conta più del messaggio, il carro più della lotta.
Ma la storia del Pride non comincia con i loghi delle multinazionali colorati d’arcobaleno. Nasce nelle periferie dimenticate, nei locali gay clandestini, manganellata nei vicoli dalle forze dell’ordine, in una società blindata attorno alla norma eterosessuale. Ma, soprattutto, nasce dalla rabbia di chi ha vissuto secoli di cancellazione e dalla solitudine bruciante di un decennio falcidiato dall’epidemia di HIV/AIDS. Negli anni Ottanta e Novanta, nessuna grande azienda – molte delle quali oggi si dipingono di arcobaleno a giugno – si schierò pubblicamente al fianco della comunità queer. Nessuna campagna. Nessuna presa di parola. Solo silenzio, mentre decine di migliaia di persone morivano nell’indifferenza generale.
È vero: i tempi erano diversi, e molte delle realtà che oggi marciano in prima fila non erano ancora nate o non avevano l’attuale capacità di influenza. Ma è proprio per questo che va ricordato: perché la legittimazione dell’identità queer è arrivata solo quando ha smesso di fare paura, e ha iniziato a essere spendibile come merce da capitalizzare. Una volta avvenuto questo passaggio, in molti hanno capito che le marce dell’orgoglio, diventate enormi, affollate, visibili, potevano essere il luogo ideale per costruire consenso, promuovere prodotti, e allinearsi a un trend culturale che sembrava inarrestabile. La visibilità data dalle aziende ha probabilmente contribuito a smuovere la politica di alcuni Paesi: si sono conquistati diritti, si è legalizzato il matrimonio egualitario e discriminare in base all’orientamento sessuale o all’identità di genere è divenuto un reato. In altri, come l’Italia, ci si è fermati a guardare.
Per molte associazioni, l’avvicinamento al mondo aziendale non è stato una svendita ideologica, ma una scelta strategica e spesso necessaria. In assenza di un sistema stabile e strutturato di finanziamento pubblico, le realtà LGBTQ+ avrebbero potuto contare quasi esclusivamente su donazioni private – preziose, ma spesso insufficienti a garantire continuità – oppure su fondi statali, che dipendono dall’orientamento politico del governo in carica. E in tempi di governi conservatori o apertamente ostili, questa seconda opzione diventa una scommessa precaria. In questo scenario, i finanziamenti aziendali hanno rappresentato, per alcune realtà, un’opportunità concreta: hanno garantito visibilità, sostenuto eventi di ampia portata, e soprattutto permesso di tenere in vita spazi fondamentali di ascolto, assistenza psicologica, consulenza sanitaria e legale. Laddove l’obiettivo era chiaro e la strategia solida, quei fondi sono serviti a rafforzare il lavoro politico, costruire alleanze e portare le proprie istanze all’interno di luoghi da cui si era sempre stati esclusi. Molte persone nel movimento hanno creduto che bastasse veicolare i corpi, i simboli le narrazioni nei canali ufficiali del marketing per piegare le logiche dell’oppressione. In alcuni casi ha funzionato. Ma non sempre ci si è interrogati davvero su chi stesse bussando alla porta.
In diverse città l’accesso ai cortei è stato concesso senza selezione, senza verifica, senza richiesta di impegni strutturali. Aziende del tech, del fast fashion, della logistica e dell’energia non sempre pulita, bramose di una rapida legittimazione attraverso l’inclusività, hanno chiesto e ottenuto il loro carro dell’orgoglio. Con slogan accattivanti e spot emozionali dai colori sgargianti, spesso, si tentava di nascondere modelli aziendali escludenti, sfruttamento lavorativo, molestie taciute, carriere bloccate per chi non rientrava nei binari della norma. Quando le associazioni che gestivano il Pride non hanno avuto la forza politica di pretendere dalle aziende policy più inclusive e sportelli interni contro la discriminazione, il cambiamento tanto sperato si è fermato alla superficie.
A Milano, nel 2019 una famosa azienda del food delivery sponsorizzava il Pride con una campagna che celebrava l’unione tra una fetta di pizza e un’ananas come simbolo di libertà e scelta. Un gesto ironico, che prometteva amore fra categorie che le persone solitamente hanno difficoltà ad accettare, ma in un momento storico in cui le maggiori piattaforme di cibo a domicilio erano accusate di sfruttamento dei rider, ancora privi di tutele e garanzie contrattuali. Un cortocircuito che rivelava i limiti di una visibilità senza intersezionalità. Il Pride, per sua natura, lotta per una società in cui i diritti di tutte e tutti vengano tutelati, senza lasciare nessuno indietro. Questa sponsorship alimentò per molte persone all’interno della comunità diversi dubbi sulla direzione che il movimento stava intraprendendo, svendendo le lotte per permettere a grandi multinazionali di proporsi più friendly con un arcobaleno di cui non comprendevano il valore politico.
Prima ancora che il movimento abbia avuto la possibilità di rispondere a tutti questi dubbi, la politica – come spesso accade – ha cambiato le carte in tavola, rendendo nuovamente il queer più rischioso che cool. E magicamente il sostegno delle multinazionali, così come si era materializzato, ora si ritira. Le stesse aziende che fino a ieri occupavano i primi carri, ora prendono tempo e rivedono i propri budget. Oggi che gli sponsor si sfilano, il movimento LGBTQ+ rischia di restare senza voce e senza risorse. Da San Francisco a Porta Venezia, a Milano, si apre un vuoto che non è solo economico: è simbolico. A San Francisco, alcuni sponsor storici – tra cui Comcast, Anheuser-Busch e Diageo – hanno ritirato il proprio sostegno, lasciando un buco di 300mila dollari nel budget. A Milano, il Pride rischia di ridimensionare le proprie attività, come ha ammesso la stessa organizzazione. Il pericolo è che, insieme alla parata, vengano meno i fondi per quei servizi che rendono il Pride qualcosa di più di una festa: assistenza psicologica, sportelli antidiscriminazione, test sanitari, attività culturali, progetti di welfare.
Questa ritirata non è casuale. È il riflesso di un contesto politico e culturale che sta rapidamente voltando le spalle ai diritti delle minoranze. Negli Stati Uniti, il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha segnato una stretta netta sulle politiche DEI (Diversity, Equity & Inclusion). Le aziende si adeguano: Target ha ridimensionato le proprie campagne inclusive, Paramount ha ripulito i propri contenuti da riferimenti alle minoranze e Amazon ha annunciato la fine di alcuni programmi “obsoleti” sull’inclusione, puntando solo su quelli con risultati comprovati. Un modo elegante per dire che il sostegno ai diritti non è più una priorità. Il risultato è un discorso pubblico sempre più ostile, in cui il silenzio delle aziende inizia a pesare, soprattutto per quelle realtà LGBTQ+ che si erano più fidate delle multinazionali.
Il caso Amazon è emblematico. Dopo aver sfilato nei Pride di mezzo mondo, nel 2025 sta semplicemente ritirando le proprie sponsorizzazioni. Un passo indietro che si inserisce in una strategia di allineamento con l’amministrazione Trump. Quando Amazon ha valutato la possibilità di mostrare ai consumatori l’impatto dei dazi imposti da Trump sui prezzi finali, la Casa Bianca è intervenuta accusando l’azienda di “politica ostile” e di voler favorire la Cina. In meno di 24 ore, Jeff Bezos ha smentito ogni iniziativa dopo una telefonata con Trump. Il problema si è risolto, e con esso anche l’illusione che il capitale potesse davvero farsi carico di una battaglia collettiva. In Europa, le ambasciate statunitensi hanno fatto pressione sulle aziende locali per adattarsi agli standard federali anti-DEI. Mentre in Francia e Belgio i governi hanno reagito denunciando pubblicamente le interferenze americane, in Italia è calato il silenzio. Ancora una volta, la mancanza di una posizione chiara da parte della politica italiana ha lasciato spazio al raffreddamento del sostegno aziendale, legittimando un arretramento che ha conseguenze dirette sulla vita delle persone LGBTQ+.
Etichettare ogni partecipazione aziendale come rainbow washing sarebbe semplicistico. Alcune realtà hanno investito in programmi reali, costruito percorsi inclusivi, istituito sportelli interni. Ma distinguere tra chi c’è per convinzione e chi per convenienza è oggi più urgente che mai. Non basta salire su un carro una volta l’anno: servono politiche interne credibili, trasparenza, coerenza. Oggi chi resta, lo fa perché crede che il Pride sia ancora uno strumento di trasformazione. E da lì bisogna ripartire. Perché se il marketing si ritira, è l’occasione di tornare alla sostanza. Di ricordarci che la visibilità da sola non basta, e che l’inclusione reale si misura nei diritti garantiti, non nei loghi arcobaleno.
Il Pride non è mai stato un evento neutro. È nato come risposta politica alla repressione, ed è rimasto tale anche quando si è trasformato. Oggi, quella natura torna a farsi urgente. Chi scende in piazza, ora, lo fa per scelta. E quella scelta è una presa di posizione. Non ci si può dire neutrali mentre i diritti vengono smantellati. Non si può stare comodi mentre altri combattono per esistere. Non basta una bandiera arcobaleno per cambiare le cose. Serve presenza, continuità, impegno. Serve, soprattutto, una direzione. Il Pride è un atto di resistenza. È il momento di smascherare chi lo usa come vetrina e di ricostruire un fronte radicale, intersezionale, consapevole. Un fronte che sappia affrontare l’abbandono dei brand senza perdere forza. Perché quando i capitali se ne andranno del tutto – e se il vento politico continuerà a soffiare in questa direzione, accadrà – resteranno le nostre storie, i nostri corpi, le nostre lotte. E allora, torniamo a chiederci per chi e per cosa si manifesta. Perché se il Pride deve sopravvivere, deve tornare a essere quello che è sempre stato: politico. Non un hashtag, ma una dichiarazione. Non una festa “per tutti”, ma una marcia per chi non ha ancora voce. Chi resta, oggi, lo fa davvero per scelta. E in questa scelta si misura il senso, la dignità e la forza del movimento.
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