Referendum 2025, per cosa si vota
Domenica 8 e lunedì 9 giugno gli italiani saranno chiamato ad esprimersi su 5 referendum relativi al lavoro e alla cittadinanza: Ecco i quesiti e la loro spiegazione

Roma, 16 maggio 2025 – Domenica 8 giugno dalle 7 alle 23 e lunedì 9 giugno dalle 7 alle 15 gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su 5 Referendum. Quattro riguardano quesiti sul lavoro e uno è relativo alla cittadinanza italiana per gli stranieri. Ma vediamo nel dettagli per cosa si vota.
Il primo quesito
Il primo dei quattro referendum sul lavoro, promossi dalla Cgil, chiede la cancellazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti introdotto nel 2015 con il Jobs act del governo Renzi, applicata a chi è stato assunto dal 7 marzo 2015 in poi. Nelle imprese con più di 15 dipendenti, in diversi casi di licenziamento illegittimo non c'è il reintegro nel posto di lavoro previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 ma un indennizzo economico che può arrivare fino ad un massimo di 36 mesi. Per la Cgil, gli occupati assunti dopo il 7 marzo 2015 sono oltre 3 milioni e 500mila, che aumenteranno nei prossimi anni, e sono “penalizzati da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui il giudice dichiari ingiusta e infondata l'interruzione del rapportò. L'obiettivo di chi ha promosso il referendum è di abrogare la norma e 'impedire licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo’. Il Jobs act, entrato in vigore il 7 marzo 2015, ha introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio. In casi di licenziamento illegittimo, ha previsto il superamento del reintegro nel posto di lavoro sostituito da un indennizzo economico “certo e crescente” commisurato all'anzianità di servizio. Si va da un minimo di 6 mensilità (che secondo la Cgil con l'abrogazione salirebbe a 12) ad un massimo di 36. Attualmente non c'è il reintegro ma l'indennizzo in questi casi: per caso di licenziamento individuale per motivi economico/organizzativi (i cosiddetti licenziamenti per giustificato motivo oggettivo); per licenziamento disciplinare; nei licenziamenti collettivi se vengono violati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; se il licenziamento viene fatto in caso di malattia prima della scadenza del cosiddetto 'periodo di comportò. Resta il reintegro nel posto di lavoro nei casi di licenziamento discriminatorio (ad esempio per ragioni legate a opinioni politiche, religiose, fatto durante la maternità o intimato in forma orale) e in specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato. Il quesito: “Volete voi l'abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante «Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183» nella sua interezza?”
Il secondo quesito
Il secondo quesito dei quattro referendum sul lavoro promossi dalla Cgil chiede più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese. In particolare riguarda la cancellazione del tetto all'indennità nei licenziamenti nelle imprese con meno di 16 dipendenti: qui in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora un giudice reputi infondata l'interruzione del rapporto di lavoro. Il bacino di riferimento è di circa 3 milioni e 700mila, il numero dei dipendenti delle piccole imprese calcolato dalla Cgil. La norma, sostengono i proponenti, li tiene 'in forte soggezione’. L'obiettivo del referendum abrogativo è dunque 'innalzare le tutele di chi lavora, cancellando il limite massimo di sei mensilità all'indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato affinché sia il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limitè.
Il quesito: "Volete voi l'abrogazione dell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante ‘norme sui licenziamenti individuali’, come sostituito dall'art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: »compreso tra un, alle parole ed ‘un massimo di 6’ e alle parole ‘la misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro’?”.
Terzo quesito
Il terzo dei quattro quesiti referendari sul lavoro riguarda ancora il Jobs act, ma anche l'ultimo intervento del governo Meloni puntando all'eliminazione di alcune norme sull'utilizzo dei contratti a termine per ridurre quella che la Cgil definisce "la piaga” del precariato. In Italia, calcola il sindacato, circa 2 milioni e 300mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I contratti a termine oggi possono essere instaurati fino a 12 mesi senza causali, ovvero - sottolinea - senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. L'obbligo di causali per i contratti a termine fino a 12 mesi era stato eliminato nel 2015 con il Jobs act del governo Renzi e poi reintrodotto nel 2018 con il decreto Dignità del governo Conte. L'ultima modifica è arrivata nel 2023 con il decreto Lavoro del governo Meloni, che ha escluso per i rinnovi e per le proroghe l'esigenza delle causali per i contratti fino a 12 mesi e introdotto nuove causali per i contratti con durata compresa tra i 12 e i 24 mesi (tra cui quella per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti in assenza della previsione contrattuale, che è possibile stipulare fino a fine anno). “Rendiamo il lavoro più stabile. Ripristiniamo l'obbligo di causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato”, è la richiesta del
referendum.
Il quesito: “Volete voi l'abrogazione dell'articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante ‘Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183’, comma 1, limitatamente alle parole ‘non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque’, alle parole ‘in presenza di almeno una delle seguenti condizioni’, alle parole ‘in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti’; e alle parole ‘b bis)’; comma 1 -bis , limitatamente alle parole ‘di durata superiore a dodici mesi’ e alle parole ‘dalla data di superamento del termine di dodici mesi’; comma 4, limitatamente alle parole ‘,in caso di rinnovo,’ e alle parole ‘solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi’; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole ‘liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente’?”.
Quarto quesito
Il quarto quesito referendario interviene in materia di salute e sicurezza sul lavoro e riguarda il cosiddetto Testo unico del 2008. La Cgil ricorda che sono circa 500mila le denunce di infortunio sul lavoro in un anno e mille i morti: questo vuol dire che in Italia ogni giorno tre lavoratrici o lavoratori muoiono sul lavoro. Nel mirino ci sono gli appalti e i subappalti. Si chiede di modificare le norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all'impresa appaltante. "Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell'imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro”.
Il quesito: “Volete voi l'abrogazione dell'art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante l’Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro« come modificato dall'art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall'art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall'art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole ‘Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici’?”.
Il quinto quesito
L'8 e 9 giugno si voterà anche sulla legge del 1992 che regola la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri. I cittadini riceveranno una scheda gialla per dare il loro parere. Secondo la legge in vigore, un adulto straniero, cittadino di un Paese che non fa parte dell'Unione Europea, deve risiedere legalmente 10 anni in Italia per poter chiedere la cittadinanza italiana. L'obiettivo del referendum abrogativo è ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992. Il termine dei dieci anni rappresenta la regola generale ed è tra i più lunghi in Europa. La riduzione a cinque anni del requisito di residenza potrebbe indirettamente semplificare anche il percorso per molti minori stranieri: ad oggi un minore straniero nato in Italia da genitori non italiani non acquisisce automaticamente la cittadinanza ma può richiederla al compimento dei diciotto anni se ha risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia fino a quel momento. Se si è d'accordo con il dimezzamento del requisito di residenza per concedere la cittadinanza italiana agli adulti extracomunitari, bisogna votare 'Sì'. Se si è contrari, bisogna votare 'Nò. Con il 'Sì', infatti, si cancellano due punti dell'articolo 9 della legge n. 91 del 1992, portando così al requisito dei cinque anni di residenza per chiedere la cittadinanza. Chi sostiene il 'Sì' ritiene che l'attuale legge sia sproporzionata e discriminatoria, perché richiede agli adulti extracomunitari il doppio degli anni di residenza rispetto alle regole in vigore prima del 1992. Il requisito dei dieci anni, secondo i promotori del referendum, non rispecchia la realtà di molti stranieri che vivono stabilmente in Italia e rischia di escludere anche i loro figli minori. Abbreviare i tempi a cinque anni, senza toccare gli altri criteri, come il reddito e la conoscenza della lingua, semplificherebbe un percorso oggi ostacolato dalla burocrazia avvicinando l'Italia agli standard di altri Paesi europei. Chi sostiene le ragioni del 'Nò ritiene invece che la legge attuale sia già adeguata e che l'Italia rilasci un numero troppo alto di cittadinanze rispetto ad altri Paesi. I risultati del referendum abrogativo, come in questo caso, sono validi solo se partecipa almeno la metà degli aventi diritto di voto, cosa che permette il raggiungimento del quorum.
Il quesito: “Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole ‘adottato da cittadino italiano’ e ‘successivamente alla adozione’; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: ‘f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica,’, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza’?”.
Il Quorum
Va ricordato che affinché il risultato dei Referendum (si può anche decidere di votare solo per alcuni chiedendo che vengano consegnate solo determinate schede) solo se verrà raggiunto un livello di votanti del 50%+1 degli aventi diritto.