L’umorismo, eredità impossibile di Papa Francesco
Tre anni fa, partecipando a un’udienza in Vaticano con Papa Francesco, avevo notato che uno dei vescovi presenti anziché vestire in “alta uniforme” si era presentato indossando un semplice clergyman. Considerando che ai tempi di Giovanni Paolo II, a Roma la talare era raccomandata – se non obbligatoria – per tutti i preti, mi aveva […]

Tre anni fa, partecipando a un’udienza in Vaticano con Papa Francesco, avevo notato che uno dei vescovi presenti anziché vestire in “alta uniforme” si era presentato indossando un semplice clergyman. Considerando che ai tempi di Giovanni Paolo II, a Roma la talare era raccomandata – se non obbligatoria – per tutti i preti, mi aveva meravigliato vedere che nella Cappella Clementina un alto prelato osasse presentarsi in modo così informale.
Appena arrivato, Papa Francesco si era avvicinato a quell’arcivescovo, gli aveva sussurrato qualcosa all’orecchio, e i due erano scoppiati a ridere. Più tardi l’arcivescovo mi aveva rivelato che il Papa, all’orecchio, gli aveva detto: “Sei l’unico vestito da maschio!”.
Forse la più grande rivoluzione di Bergoglio – insieme alla lotta a qualsiasi tipo di formalismo, di protocollo e di etichetta – è stata aver portato in Vaticano l’umorismo. Non il proverbiale “sorriso” cattolico, badate bene, ma battute graffianti e spesso colorite che si accompagnavano a vere e proprie prese di posizione politiche o pastorali.
Si pensi al baciamano: all’inizio rifiutato, col tempo addirittura proibito; una scelta argomentata, poi, con una battuta che sembra uscita da un film di Verdone: “Alla fine dell’udienza ho la mano fradicia di saliva – aveva spiegato ai giornalisti – non è igienico!”.
Quando l’ho incontrato con mia moglie pochi giorni dopo il matrimonio, si è raccomandato – ridendo – di litigare, perché l’amore deve passare per la dialettica. D’altra parte si racconta che appena eletto abbia rifiutato i paramenti papali rispondendo sarcastico: “Il carnevale è finito”. Alla luce di questo, anche la sua celebre uscita in Vaticano con il poncho e senza talare assume un colore diverso: non una trascuratezza dovuta alla malattia, ma l’ennesima provocazione di un Papa che sin dall’inizio ha rifiutato gli abiti pontificali.
La desacralizzazione della figura del Pontefice, l’umanizzazione del “Vicario di Cristo” passava, dunque, non solo per gesti simbolici ma anche per il dissacrante umorismo. Ed è forse questa l’eredità più difficile di Papa Francesco, quella con cui con più fatica il suo successore dovrà confrontarsi. Perché se l’umorismo è sempre stato guardato con sospetto dalla Chiesa proprio per la sua capacità dissacratoria, ancora oggi nel mondo cattolico si tende a parlare molto di “sorriso” e poco di “risate”. Dello stesso Bergoglio si ricorda spesso come recitasse tutti i giorni la preghiera del “buon umore” scritta da Tommaso Moro.
L’umorismo di Francesco, però, non si limitava ad un’affabile simpatia, ma si poneva come vero e proprio “rovesciamento dei valori”. Quel rovesciamento dei valori borghesi attuato dallo stesso Gesù Cristo scandalizzando già allora i contemporanei.
Particolarmente significativa, grottesca e involontariamente comica è, sotto questo profilo, l’intervista in cui Camillo Ruini – per quasi vent’anni il più potente cardinale italiano – accusa Bergoglio di aver privilegiato i “lontani” a scapito dei cattolici: “È un gesto evangelico – ha detto al Corriere della Sera – ma come nella parabola del figliol prodigo l’altro figlio protestò, così oggi c’è chi protesta nella Chiesa”. Ruini identifica quindi i cattolici con l’antagonista della parabola evangelica, non con i protagonisti. Non solo, ma critica i funerali perché “alla morte di Wojtyla la gente urlava santo subito, mentre alla morte di Bergoglio ha urlato grazie Francesco”. Come se l’idolatria fosse un sentimento più cristiano della gratitudine.
Ma il problema vero – che emerge in modo quasi comico dalle parole del cardinale – è proprio che Francesco ha usato l’umorismo per desacralizzare il pontificato stesso, per abbattere quel muro che i suoi predecessori avevano edificato separando lo spazio sacro della Chiesa da quello profano dei fedeli. Un umorismo che non ha mancato di scandalizzare i perbenisti: dall’inizio del pontificato, quando ironizzando sulla proverbiale rivalità tra i due grandi Paesi dell’America latina disse che “il Papa è argentino, ma Dio è brasiliano”, ai suoi ultimi giorni, nei quali – anche dall’ospedale – aveva ribadito che in tanti pregavano per lui, ma perché morisse, non perché guarisse.
“Per una battuta mi sarei giocato anche la fidanzata”, ripete da sempre mio papà, che peraltro si chiama anche lui Francesco. E il Papa per una battuta si è giocato spesso le simpatie dei suoi stessi sostenitori, come quando ha detto alle suore che non devono comportarsi “come delle zitelle”. Sulle beghine pettegole, poi, amava ripetere una barzelletta: “Una donna andava tutti i giorni a messa, ma passava il resto della giornata a parlare male di tutti, compreso il prete. Una volta si ammalò e chiese al parroco di portargli la comunione a casa. ‘Ma non c’è bisogno – rispose lui -, lei ha la lingua così lunga che se si affaccia alla finestra arriva fino al tabernacolo’”.
Che dire poi di quella “troppa frociaggine” nei seminari, che ha improvvisamente trasformato in omofobo il primo Papa gay friendly: un percorso partito con il celebre “chi sono io per giudicare” e approdato alle benedizioni delle coppie omosessuali, improvvisamente messo in ombra da una battuta. Questo perché a prescindere dalle posizioni etiche e pastorali, l’umorismo di Papa Francesco restava tanto politicamente scorretto da far invidia a Ricky Gervais.
Non è certo un caso se nessun Papa ha mai avuto un rapporto così stretto con gli umoristi: dall’amicizia con Lino Banfi, Whoopi Goldberg e Roberto Benigni (che ha invitato addirittura a “predicare” in piazza San Pietro) all’incontro con Francesco Salvi (primo attore a interpretare una versione comica di Francesco d’Assisi) per la consegna del film La Stella di Greccio, fino allo storico incontro con i comici del 14 giugno 2024, quando in Vaticano sono arrivati oltre 100 artisti tra i quali Carlo Verdone, Cochi Ponzoni, Pif, Nino Frassica, Alessandro Bergonzoni, Valerio Lundini, Emanuela Fanelli, il Mago Forest, Federico Basso, Jimmy Fallon, Chris Rock e Conan O’Brien. “Il Papa considera l’umorismo un’occasione d’incontro ma soprattutto una chiave di lettura che aiuta a comprendere la realtà”, scriveva Fabio Colagrande su VaticanNews per l’occasione.
D’altra parte già nel 2017 la rivista gesuita La Civiltà Cattolica definiva l’umorismo “un’intelligenza nuova che relativizza e ridimensiona quanto si vorrebbe prendere per assoluto ed eccelso, aiuta a demitizzare noi stessi e gli altri, ad amare il mondo nonostante le sue imperfezioni”.
Francesco arriva a parlare dell’umorismo persino in un documento ufficiale come la lettera apostolica del 2018 Gaudete et exsultate: “Il santo – scrive – è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza”. “Gli angeli possono volare perché prendono sé stessi con leggerezza”, diceva Chesterton.
L’umorista è proprio colui in grado di non prendersi troppo sul serio. Il che non significa certo non prendere sul serio la vita, ma esattamente il contrario. Non a caso Francesco è stato anche il primo Papa in assoluto capace di chiedere perdono. Non per le colpe della Chiesa (quello lo aveva già fatto Wojtyla), ma per i suoi errori personali, intaccando così anche la famigerata “infallibilità”. Ed è successo diverse volte. La circostanza più clamorosa si è verificata nel 2018, in Cile: il Papa difende un vescovo accusato di abusi, e a un giornalista che lo incalza dice che non ci sono prove della colpevolezza e quindi si tratta solo di calunnie. La dichiarazione scatena una polemica con le vittime. Il cardinale Sean Patrick O’ Malley, presidente della commissione sugli abusi voluta dallo stesso Francesco, interviene sulla questione; e anziché minimizzare l’accaduto e difendere il Papa, magari dicendo che le sue parole sono state travisate, si schiera dalla parte delle vittime criticando apertamente Bergoglio per averle fatte sentire abbandonate e aggiungendo che in questi casi non si possono chiedere “prove” perché “non è che quando un prete violenta un bambino gli rilascia un certificato”. A quel punto il Papa, anziché chiudersi nel silenzio progettando la rimozione del cardinale, chiede scusa: “Ha ragione il cardinale O’ Malley”, dice.
Ed è proprio questo l’atteggiamento che più gli rimproverano i suoi detrattori: se la Chiesa ammette di sbagliare non può più pretendere di insegnare agli altri. Il punto è proprio che Francesco vuole insegnare il cristianesimo quanto piuttosto testimoniarlo. “Non è un caso se umiltà e umorismo hanno un’origine comune – scriveva Riccardo Maccioni su Avvenire commentando la lettera apostolica -. Chi non si fa condizionare dalla superbia capisce che esiste qualcosa di più grande di lui, e del suo io. Di cui anzi impara a sorridere”.
“Dovrebbero cantarmi dei canti migliori, perché io impari a credere nel loro Salvatore – riassumeva sarcastico Nietzsche -. Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero più un aspetto da gente salvata”. Parole che sembrano echeggiare in quelle di Jorge: “Alcune volte i cristiani malinconici hanno la faccia da peperoncini all’aceto piuttosto che di persone gioiose che hanno una vita bella”.
È pure vero che qualche precedente, il Papa argentino, in Vaticano lo ha trovato: nella storia della Chiesa non ci sono solo pontefici ieratici e seriosi. Si racconta che Pio IX avesse offerto del tabacco da fiuto a un cardinale che l’aveva rifiutato dicendo: “Santità, non ho questo vizio!”. E il Papa aveva risposto sarcastico: “Eminenza, se fosse un vizio, lei ce l’avrebbe!”.
Altro battutista da competizione era Giuseppe Sarto, alias Pio X: a chi lo chiamava santo diceva di aver sbagliato consonante, e che lui era “Sarto”; e a chi gli chiedeva come si trovasse a Roma, rispondeva: “Da papa!”.
Leone XIII, mentre passeggiava nei Giardini Vaticani, venne quasi gettato a terra da una gazzella, tra il panico dei presenti. “Dove si è mai visto – li rassicurò lui – che un Leone abbia paura di una gazzella?”. Quando poi, sul letto di morte, sentì i cardinali discutere del prossimo Conclave, disse in ciociaro: “Ma c’avete tanta prescia de manname all’altro monno?”.
Durante il Conclave del 1978 un cardinale disse a Karol Wojtyla: “Eminenza, ho sentito dire che lei va a sciare, scala montagne, va in bicicletta. Non credo si adatti a un principe della Chiesa”. Il futuro Papa rispose: “Ma sa che in Polonia il 50% dei cardinali si dedica a queste attività?”. Il punto è che i cardinali polacchi erano solo due. Fulminante, infine, la risposta di Giovanni XXIII a un giornalista che gli chiese quante persone lavorano in Vaticano. “La metà!”.
Se nel caso dei suoi predecessori, però, la battuta umoristica era per così dire “innocua”, occasionale e non intaccava la sacralità del ruolo, in Francesco l’umorismo diventa una vera e propria linea programmatica, uno strumento pastorale, addirittura un’elaborazione teologica. “Il riso è contagioso, rompe le barriere, apre la condivisione, ma soprattutto diffonde la pace, denuncia gli eccessi del potere, dà voce a situazioni dimenticate, evidenzia abusi, segnala comportamenti inadeguati”, dice ai comici: “Ridere aiuta anche a creare connessioni tra le persone e a creare spazi di libertà senza spargere allarme o terrore, ansia o paura, come fa molta comunicazione; voi comici svegliate il senso critico. L’umorismo non è mai contro qualcuno, ma è sempre inclusivo. Si può ridere anche di Dio – e non è una bestemmia – come si gioca e si scherza con le persone che amiamo”.
Per questo, per dodici anni e fino all’ultimo momento, il Papa gesuita non ha mai mancato di raccomandare a chiunque incontrasse, dagli artisti alle monache di clausura: “Mi raccomando: non perdete il senso dell’umorismo”. La speranza è che non lo perda nemmeno il suo successore, continuando il cammino verso una Chiesa sempre più “in uscita” e accogliente.
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