La guerra di Trump alle università Usa è un autogol economico e culturale: colpirne cento per educarne uno
La caccia alle streghe del presidente degli Stati Uniti Donald Trump contro le università americane non è solo un attacco ideologico ma rappresenta anche una scelta profondamente autolesionista dal punto di vista economico, strategico e culturale. Colpire il sistema universitario Usa significa minare uno dei pilastri dell’influenza globale degli Stati Uniti e una delle sue […]

La caccia alle streghe del presidente degli Stati Uniti Donald Trump contro le università americane non è solo un attacco ideologico ma rappresenta anche una scelta profondamente autolesionista dal punto di vista economico, strategico e culturale. Colpire il sistema universitario Usa significa minare uno dei pilastri dell’influenza globale degli Stati Uniti e una delle sue esportazioni più redditizie, mettendo a rischio la sua capacità di attrazione, innovazione e leadership internazionale.
Trump ha spesso dichiarato di voler riequilibrare la bilancia commerciale americana. Eppure, tra i suoi bersagli preferiti ci sono proprio le università, un settore in cui gli Stati Uniti vantano un ampio surplus: ogni anno, centinaia di migliaia di studenti stranieri scelgono di formarsi negli atenei americani, pagando rette elevate e contribuendo in modo significativo all’economia del Paese.
Le entrate generate dal sistema educativo superano persino quelle del carbone e del gas naturale, ma la sua amministrazione ha agito come se si trattasse di un peso anziché di un asset strategico. Le università americane non offrono solo istruzione: sono fucine di ricerca scientifica, innovazione tecnologica e soft power. Gli studenti stranieri che tornano nei loro Paesi diventano (spesso) promotori inconsapevoli e fervidi sostenitori dei valori americani, dalla libertà accademica ai diritti civili.
Ebbene, anziché valorizzare l’accademia e il suo mondo, Trump l’ha attaccata con tagli alla ricerca, crociate ideologiche e misure punitive verso gli atenei più prestigiosi. Il tutto in nome di una fantomatica battaglia commerciale.
Harvard, Cornell, Princeton, Columbia, Pennsylvania, Northwestern: tutte finite nel mirino di Trump, anche per il fatto di ospitare proteste o discussioni critiche, soprattutto in relazione alla guerra a Gaza. L’aspetto più inquietante è la stretta crescente nei confronti degli studenti stranieri, molti dei quali vivono oggi in un clima di paura e insicurezza.
Basti pensare alle testimonianze raccolte da Alexander Stille, professore alla scuola di giornalismo della Columbia University: “Il giorno dopo l’arresto di Mahmoud Khalil, laureato della Columbia University, una mia studentessa palestinese mi ha chiesto di partecipare alla lezione via Zoom, temendo di uscire di casa. Aveva ragione a preoccuparsi: l’amministrazione ha revocato i visti a oltre 300 studenti per proteste o opinioni definite dal segretario di Stato Marco Rubio «pericolose per la politica estera». Tra loro, una laureata della Tufts che aveva chiesto il disinvestimento da Israele”.
Non si tratta di episodi isolati. In alcuni atenei si parla di collaborazioni tra amministrazioni universitarie e forze dell’ordine per identificare studenti stranieri “problematici”. Alcuni siti pro-Israele utilizzano software di riconoscimento facciale per raccogliere dati su manifestanti e professori critici, alimentando liste nere che l’amministrazione utilizza per espulsioni e misure punitive.
Anche chi non partecipa attivamente alle proteste teme ripercussioni: una ricercatrice nordafricana, con carta verde e un incarico universitario, teme oggi di perdere tutto per via della sua provenienza e del suo passato accademico. Stille ha infine affermato: “Anche professori di lunga data, non cittadini americani, temono di essere espulsi”.
In modo molto interessante, Columbia e Harvard sono diventate due simboli di approcci opposti alla stretta governativa.
Columbia, dopo aver perso 400 milioni di dollari in fondi federali, ha in parte ceduto alle pressioni pur di recuperare e mantenere il finanziamento proveniente da fondi governativi pari a un quarto del suo budget, “assumendo 36 agenti di sicurezza e vietando di indossare maschere nel campus per nascondere la propria identità e il monitoraggio sulle sue procedure di ammissione”. Ha scelto la sopravvivenza istituzionale.
Harvard, invece, ha deciso di rispondere con fermezza. Dopo aver rifiutato le richieste dell’amministrazione Trump di eliminare i programmi di diversità, segnalare presunte violazioni da parte di studenti stranieri e sottoporre i dipartimenti a revisioni ideologiche, l’università ha subito il congelamento di oltre 2 miliardi di dollari in finanziamenti governativi. Inoltre, è stata minacciata la revoca dello status di esenzione fiscale e la possibilità di iscrivere studenti stranieri.
Il Segretario alla Sicurezza Interna, Kristi Noem, ha imposto un ultimatum: consegnare entro il 30 aprile i registri relativi a presunte attività illegali degli studenti stranieri, pena ulteriori sanzioni. Il presidente di Harvard, Alan Garber, ha risposto con fermezza, rifiutando le richieste e difendendo l’indipendenza dell’istituzione. Ha sottolineato che nessun governo dovrebbe dettare cosa insegnare, chi assumere o chi iscrivere, riaffermando l’impegno dell’università per la libertà accademica e i diritti costituzionali.
Non si può ignorare il contesto politico più ampio. L’offensiva contro le università si inserisce in un progetto culturale reazionario. Tutto questo ricorda le purghe ideologiche del Maccartismo, ma con una differenza fondamentale: allora il governo si tenne in disparte, oggi ne è protagonista. Per la prima volta nella storia recente, un’amministrazione utilizza lo Stato come strumento per punire il dissenso accademico e reprimere il pensiero critico. In un momento in cui la competizione globale per il talento è sempre più feroce, Trump sta rendendo gli Stati Uniti meno attraenti per i migliori cervelli del mondo.
Le azioni dell’amministrazione Trump hanno suscitato una forte reazione da parte della comunità accademica e della società civile. Numerose università, tra cui Stanford, Princeton, hanno espresso solidarietà a Harvard e si sono impegnate a difendere la libertà accademica. Ex presidenti, come Barack Obama, e leader politici hanno criticato le misure del governo, definendole un tentativo di minare l’autonomia delle istituzioni.
L’istruzione è un patrimonio globale. Minarla per ragioni ideologiche è un errore strategico di proporzioni enormi. Se davvero Trump volesse tutelare l’economia americana, dovrebbe proteggere le sue università, non demolirle. Ma per farlo servirebbe una visione a lungo termine e un rispetto profondo per la libertà accademica — non la voglia di vendetta contro chi non si allinea.