Jacchia: «La moda italiana? Più forte dei dazi: ecco come»

Nessuno sa con certezza quali contraccolpi potrebbero subire le aziende della moda con l’applicazione dei dazi da parte del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, per ora soggetti a una moratoria di 90 giorni, oltre alle esenzioni già fissate. Una misura che sembra venire dal passato, da quando gli scambi commerciali nel Mondo erano intermediati […] L'articolo Jacchia: «La moda italiana? Più forte dei dazi: ecco come» proviene da ilBollettino.

Mag 15, 2025 - 01:18
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Jacchia: «La moda italiana? Più forte dei dazi: ecco come»

Nessuno sa con certezza quali contraccolpi potrebbero subire le aziende della moda con l’applicazione dei dazi da parte del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, per ora soggetti a una moratoria di 90 giorni, oltre alle esenzioni già fissate. Una misura che sembra venire dal passato, da quando gli scambi commerciali nel Mondo erano intermediati da un’imposta poi venuta meno o fortemente attenuata con la maggiore permeabilità delle frontiere commerciali. Qualche indizio può arrivare dall’osservazione dei dati.

L’Italia è il primo esportatore in UE e il secondo al mondo dopo la Cina (347 miliardi), di prodotti del tessile, moda e accessorio (TMA), precedendo Vietnam (52,8), India (47,8) e Germania (47,5). Nel 2021 il saldo attivo registrato è stato di 33,2 miliardi di euro (dati Fondazione Symbola). Quello della moda è poi il secondo settore per contributo alla bilancia commerciale italiana, con una propensione all’export attorno al 75% del fatturato. Nel comparto TMA l’Italia è il primo Paese UE, sia per valore aggiunto che per numero di occupati. Infatti il 26,3% degli addetti europei del comparto è italiano. Seguono Portogallo (9,7%), Polonia (9,3%), Romania (8,8%) e Germania (8,1%). «Non è detto però che il comparto italiano della moda nel suo complesso risenta più di tanto dell’introduzione dei dazi statunitensi» dice Roberto Jacchia, Partner dello studio legale De Berti Jacchia Franchini Forlani. 

Da cosa deriva la sua considerazione?

«Mi riferisco al settore dell’abbigliamento d’élite, quello degli altospendenti. Penso a prodotti come le borse di alta moda, per esempio modelli come una Chanel o una Birkin, il cui prezzo medio si può aggirare anche sui 30mila euro. Allora il ragionamento è: chi è disposto a spendere queste cifre per un acquisto, non si fermerà di fronte a un aumento del prezzo anche del 20%, che può portare la cifra a salire anche fino a 36mila euro indicativamente. È un settore che presenta una domanda strutturalmente più elastica al prezzo».

Per certe categorie, insomma, non cambierà niente, neppure con le eventuali maggiorazioni portate dai dazi…

«La mia idea è che per alcune merci e determinate filiere e categorie di addetti gli effetti saranno scarsi. Qualche conseguenza più robusta potrà vedersi su altre merci che entrano in quantità maggiore e con un prezzo minore, e che quindi raggiungono una più ampia platea di acquirenti finali. Lì potrebbe accadere che gli acquisti si spostino perché il consumatore non è disposto a pagare oltre un certo aumento del prezzo finale e quindi si ferma lì».

Possiamo spiegare cosa sia tecnicamente un dazio?

«Si tratte di imposte indirette, perché si pagano sulla merce che proviene dall’estero sulla base di percentuali prestabilite e accordi internazionali. Si riscuotono per il solo fatto che una merce attraversi una frontiera e si vanno ad accumulare al prezzo. Così l’importatore su un prodotto che costa cento andrà a versare il 20% di dazi doganali – supponiamo – e a quel punto la rivenderà al distributore almeno a 120. Poi aggiungerà il proprio margine che si abbatte sul consumatore, su cui ricade la spesa finale».

È un meccanismo che avevamo dimenticato, che ci riporta indietro nel tempo

«Fino alla Seconda Guerra Mondiale c’erano i dazi. Ognuno metteva i suoi. Dopodiché, in questa parte del Mondo, è iniziato il processo di integrazione europea e, passati un po’ di anni, i dazi sono scomparsi almeno dentro i confini dell’Europa. Quello che si paga è l’IVA. Risale poi agli Anni Novanta la messa a regime dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, all’interno della quale si sono svolti negoziati in materia di dazi per cui tra certi Paesi si sono annullati. Per altri, per esempio quelli in via di sviluppo, sono stati eliminati o ridotti come forma di cooperazione internazionale e aiuto».

Che senso ha reintrodurli?

«Sono un’arma di confronto e di guerra economica. Chi mette i dazi vuole indurre il consumatore a non pagare una cifra ritenendola eccessiva per un prodotto, e quindi virare su un prodotto nazionale meno caro. Questa è, semplificando molto, la filosofia sottostante in termini economici. Se sale il dazio il consumatore cambia idea e compra la merce nazionale. Così si difende il Mercato nazionale e per questo la misura si considera protezionistica».  

Qui subentra poi il discorso della bilancia commerciale…

«Nella prospettiva del commercio internazionale, le relazioni tra due Paesi si basano innanzitutto su questo, sul rapporto tra importazioni ed esportazioni. Lì si vede se è equilibrato, oppure a favore dell’uno o dell’altro e a quel punto l’introduzione di dazi diventa un fatto politico».

Com’è la situazione tra Italia e Stati Uniti?

«Gli Stati Uniti hanno una bilancia commerciale negativa verso l’Italia, perché importano più merci di quanto non ne esportino. Ed è così anche a livello europeo. Nello specifico, l’export dell’Italia verso gli USA vale 66 miliardi».

Non è questo in teoria che espone la nostra economia a rischi maggiori?

«Torno al discorso precedente per cui, a mio modo di vedere, almeno per il segmento del lusso cambia poco. Ci sono dichiarazioni, lamentele da parte dei brand… ma poi immaginiamo di nuovo la Birkin esposta in una vetrina della Quinta Strada a New York di un negozio super-elegante: lì il consumatore che sente il “bisogno” di comprarla e può permetterselo, potrà farlo anche con i dazi».

Potrebbe anche succedere che un consumatore statunitense decida di venire a comprare un prodotto nelle vie dello shopping italiano, per risparmiare…

«Dipende dal livello del cambio con il dollaro in quel momento. Ma comunque, se qualche americano comprasse una borsa di Prada in via Montenapoleone per poi portarla negli Stati Uniti dovrebbe dichiararlo alla dogana. Se non lo fa si assume i suoi rischi. E sappiamo che negli Stati Uniti con le tasse si scherza molto poco. Anzi in tema di aeroporti, quello che potrebbe verificarsi è un altro effetto».

Quale?

«Una nuova opportunità di espansione per i duty free, che oggi sono diventate mega aree dello shopping per i viaggiatori prima di imbarcarsi. Potrebbero rifiorire come fu un tempo, quando lì si acquistavano prodotti a prezzi parecchio più convenienti, perché si trattava di aree franche, dove, talvolta con limiti individuali di quantità per prodotti come i vini, i superalcolici e i tabacchi, i dazi e le accise non venivano applicati». 

La Borsa però ha un po’ traballato con l’annuncio del 2 aprile scorso

«Sì, sono sussulti di per sé importanti, ma che rientrano nel funzionamento dei Mercati dei capitali e nella loro reattività agli eventi geopolitici. Prima si scende ma poi si risale. Le grandi quotate come Kering, LVMH sono un po’ calate ma poi si riprendono, è parte di un movimento complessivo quindi poi nell’insieme credo che cambierà poco».

Che ruolo ha la Cina in tutto questo?

«È innanzi tutto un grandissimo creditore verso gli Stati Uniti, uno dei principali Paesi detentori di debito sovrano americano. Ha anche un enorme surplus commerciale verso gli Stati Uniti quindi in tema di dazi è esposta di più».

Gli Stati Uniti producono poco in fatto di abbigliamento

«Leggevo come le importazioni USA del settore vadano dal 95 al 97%. Proprio per questo si può fare l’ipotesi di un brand americano che produce scarpe o jeans o t-shirt con stabilimenti in Asia. Poi il passaggio successivo è importare i prodotti negli USA e ridistribuirli tramite la firma statunitense: può darsi che anche in queste circostanze l’aumento del prezzo per tutto il ciclo di abbigliamento all’interno di un gruppo si riduca a non molto».

Dipende anche da chi compra

«Esattamente. Per un consumatore italiano che acquista un prodotto proveniente dagli Stati Uniti che ha in pancia un dazio dovuto alla produzione in Cina, potrebbe crearsi l’effetto per cui il prezzo finale sia troppo caro rispetto al suo budget massimo di spesa. Potrebbe decidere di non comprare, per colpa di quella che in definitiva diventa inflazione».

Ne risentirà il fast fashion?

«Difficile saperlo. Potrebbe essere poco toccata perché i prezzi sono già molto bassi. Poi lì la catena produttiva è molto veloce. Se si sposta il dazio lungo la linea forse si riduce il margine di manovra. Ma non si sostituisce una catena produttiva in poco tempo, quindi per cambiare la filiera si andrà necessariamente sul medio-lungo periodo».

E lo slow fashion?

«Questo settore potrebbe risentirne poco perché riguarda brand secondari che soddisfano esigenze meno tangibili per i consumatori».

C’è anche una componente psicologica

«Rientra negli obiettivi dell’amministrazione Trump, creare una grancassa mediatica. Lo abbiamo visto in Borsa cosa accade con una grande instabilità. L’incertezza non giova agli investimenti».

Esiste poi la possibilità che le aziende decidano di delocalizzare

«Nel caso del lusso però è difficile da mettere in pratica. Nei Paesi di destinazione potrebbero non esserci le skill e la manodopera adeguata per produrre. È già successo, lo hanno raccontato le cronache, per alcune borse di lusso che hanno delocalizzato negli Stati Uniti, ma senza successo. Perché le competenze dell’artigianato non si ricreano dall’oggi al domani. Per di più, con le politiche di esclusione dei migranti irregolari che stiamo vedendo. Insomma, al di là dell’impatto mediatico, sono elementi in gran parte irrazionali. Io vedo più che altro la gratificazione di un personaggio che soffre un po’ di un ego ipertrofico».

Eppure è stato votato

«Da ben il 55% degli statunitensi. Per noi e il nostro sistema fatto di checks and balances sarebbe impensabile arrivare a certi eccessi ad opera di uomo solo al comando, proprio a livello costituzionale. Oltreoceano invece ci si può trovare ad avere conferito a una sola persona un potere immenso, soprattutto se il suo partito gode della maggioranza del Congresso. Ce l’ha fatta seducendo l’elettorato con la narrazione della liberazione dai parassiti cinesi e europei».

Dobbiamo avere paura?

«Non tanto di lui, che è tutto sommato un signore che si avvicina agli ottant’anni. Piuttosto del suo vice, che è invece un ragazzotto pieno di energia, che di anni ne ha 45».

Perché per i brand di moda è sempre più necessario passare per la tutela di uno studio legale?

«I motivi sono diversi. Ne cito alcuni: i rischi di contraffazione, i vari fenomeni distorsivi e illeciti così come la complessità di un Mercato sempre più popolato e internazionale. Tutti fattori che richiedono il supporto di figure qualificate con competenze trasversali».

La protezione riguarda anche le figure professionali

«Il settore della moda deve fare i conti con la nascita di figure nuove, quali influencer e blogger, fondamentali nella promozione dei prodotti tra i consumatori e che necessitano di supporto legale ad hoc».

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