Investimenti, attenzione: il rialzo azionario è frenato dai bond
Lo spettacolare recupero dei mercati azionari nelle ultime settimane ha premiato il popolo dei trader individuali, del retail, degli irrisi compratori su ribasso e ha costretto molti istituzionali, inclusa l’aristocrazia degli hedge fund, a ricomprare in affanno le tonnellate di titoli che erano stati precipitosamente scaricati nei giorni di aprile in cui era assordante l’invito... Leggi tutto

Lo spettacolare recupero dei mercati azionari nelle ultime settimane ha premiato il popolo dei trader individuali, del retail, degli irrisi compratori su ribasso e ha costretto molti istituzionali, inclusa l’aristocrazia degli hedge fund, a ricomprare in affanno le tonnellate di titoli che erano stati precipitosamente scaricati nei giorni di aprile in cui era assordante l’invito ad uscire per sempre dall’America.
Le ragioni sono varie e alcune sono buone e altre discutibili. Tra queste ultime c’è il riflesso condizionato di due generazioni che, dal 1982, hanno visto un unico grandioso rialzo azionario intervallato da brevi ribassi che si sono poi rivelati eccellenti occasioni di acquisto (1987, 2000, 2008, 2020). È il riflesso opposto a quello che ha avuto la generazione che nel secolo scorso è restata sott’acqua dal 1929 al 1954, ha passato i successivi vent’anni a vendere e gli anni Settanta a vedere confermata dall’enorme volatilità di quel periodo la decisione di evitare l’azionario per tutti gli anni che le sarebbero rimasti da vivere.
Tra le ragioni più fondate c’è invece, probabilmente, una maggiore sintonia psicologica col trumpismo, non necessariamente nel senso di adesione ai suoi valori, ma in quello del comprenderne la natura pragmatica e del non prenderne necessariamente alla lettera le dichiarazioni bellicose. È una logica diversa da quella dell’investitore istituzionale, dove gli analisti, facendo il loro lavoro, traducono in recessione, inflazione e caduta dei profitti l’ultima esternazione presidenziale, mentre i risk manager, facendo anch’essi il loro lavoro, inducono i gestori a ridurre la loro esposizione mentre la volatilità esplode e il mercato implode.
Uno a zero per il retail, dunque, ma questo non significa granché. Retail e istituzionali hanno logiche diverse e hanno entrambi i loro punti di forza e di debolezza. A titolo di esempio, una debolezza del retail, spesso, è quella di volere strafare, di essere portato a dire, come fanno in molti sui social media in questo momento, che il rimbalzo deve per forza portare in tempi brevi a nuovi massimi. Tutto può essere, naturalmente, e non manca molto all’avverarsi eventuale di questa tesi. Una tesi che si è del resto già avverata in alcune borse europee, che nei giorni scorsi hanno effettivamente segnato nuovi massimi storici.
C’è però qualcosa che dovrebbe turbare almeno un po’ i sonni degli ottimisti, magari non nell’immediato (il momentum è ancora molto forte) ma per quanto riguarda la capacità del mercato di potere attraversare l’estate e l’autunno restando sui massimi.
Questo qualcosa non è il rischio di recessione di cui ancora pur parla un investitore brillante come Steve Cohen (che ipotizza un nuovo test dei minimi nelle prossime settimane). Ci saranno sicuramente un certo rallentamento della crescita (già visto nel primo trimestre) e un leggero aumento della disoccupazione, peraltro frenato dal fatto (ben notato durante il Covid) che le imprese non licenziano se pensano che la tempesta sarà breve. Quanto all’inflazione, gli effetti dei dazi saranno in gran parte bilanciati dalla discesa dei prezzi dell’energia, che Trump si adopera senza sosta per abbassare ulteriormente (come si vede anche dalla sua opposizione a un attacco all’Iran e dalla pressione su Teheran per un accordo sul nucleare che cancellerebbe le sanzioni e immetterebbe altro petrolio sul mercato).
Il problema, più che la recessione, sembra essere la fragilità dei Treasuries. Per capirla meglio, facciamo un telegrafico riassunto di questi ultimi mesi. Trump, come sappiamo, ha diagnosticato la malattia americana (disavanzo pubblico cronico, indebitamento crescente, squilibrio verso l’estero, deindustrializzazione) e ha deciso di affrontarla aggressivamente. Ha minacciato in ogni modo il resto del mondo per costringerlo a reflazionare, ha iniziato la guerra dei dazi (accompagnata dall’avvio della svalutazione del dollaro) e ha lanciato Musk all’attacco del disavanzo federale. Ha avuto pieno successo sul primo punto (Europa e Cina stanno reflazionando). Otterrà qualcosa sul secondo. Ha fatto marcia indietro sul terzo.
Trump ha ancora un grande capitale politico, ma non può permettersi una recessione seria se vuole avere qualche speranza di mantenere il controllo del Congresso l’anno prossimo. Tagliare la spesa pubblica come stava facendo Musk ha effetti recessivi, che si aggiungono a quelli dei dazi. Da qui la marcia indietro. A questo punto sembrano rimanere in pista i programmi di taglio di tasse e ampliamento di spesa, mentre il Doge è uscito di scena. È ancora tutto da vedere, perché, come ovunque, anche in America si discute per mesi una bozza di legge di bilancio e poi negli ultimi cinque minuti salta fuori qualcosa di completamente diverso che viene velocemente approvato. Per quello che sappiamo adesso, in ogni caso, il disavanzo non scenderà e forse aumenterà.
Un elevato disavanzo immette soldi nell’economia e piace alle borse, ma a una condizione. Bisogna cioè che questo disavanzo sia facilmente finanziato dal mercato o, se il mercato non basta, da una Fed che fa Quantitative easing. Questa Fed, che non ama Trump, fa però in questo momento il contrario del Qe, ovvero il Quantitative tightening e, oltre a questo, rinvia il più possibile qualsiasi taglio dei tassi. Quanto al mercato, i compratori statuali esteri (le banche centrali, con l’eccezione della Cina) non acquistano Treasuries da 15 anni e si limitano a tenere e rinnovare quelli che hanno a riserva. I compratori istituzionali esteri (fondi pensione, banche, asset manager) se devono investire in America preferiscono l’azionario. Le banche americane, dal canto loro, non possono comprare altri Treasuries perché hanno ratio patrimoniali da rispettare.
Ecco allora, per Bessent, il problema di trovare dei compratori per i suoi titoli, che erano considerati risk free quando li comprava la Fed e che oggi sono invece considerati rischiosi, soprattutto sulla parte lunga. Se Bessent avrà problemi, se qualche asta andrà male e se il decennale si avvicinerà troppo al 5 per cento (il trentennale lo ha già superato) la borsa ne dovrà tenere conto. Ne sta già tenendo conto adesso, moderandosi, pur con un’inflazione tranquilla. Ne sarà influenzata di più se ci sarà davvero quell’aumento di inflazione che nelle settimane scorse abbiamo tutti tanto temuto.
Pur in queste condizioni impegnative, i Treasuries e i loro compratori possono aggrapparsi a qualche legittima speranza. In autunno, quasi certamente, la proposta di modifica delle ratio patrimoniali delle banche americane (che sono in questo momento più severe delle nostre) avrà completato il suo iter. Le banche, a quel punto, potranno usare più leva per comprare Treasuries. In primavera, poi, la Fed avrà un nuovo governatore, verosimilmente più propenso a reintrodurre il Qe e ad abbassare i tassi.
Sintetizzando, il 2026 si conferma come un anno positivo per la crescita globale (il rilancio europeo e cinese sarà pienamente visibile) e meno stressante per i Treasuries (che manterranno comunque una curva dei rendimenti ripida). Nell’immediato, diciamo nei prossimi tre mesi, il quadro sarà meno favorevole. Improbabile una recessione, dunque, e improbabile anche un test dei minimi di borsa. I livelli azionari attuali sono difendibili, per ulteriori rialzi è ancora presto.
A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rosso e il Nero)