Dentro il “nuovo” Afghanistan: il regime talebano visto da dentro
Se dovessimo coniare una parola per descrivere la continua rielaborazione degli stessi fatti storici riguardanti conflitti internazionali a fini propagandistici, questa potrebbe avere il nome di “afghanizzazione mediatica”. Quello dell’Afghanistan non è certo l’unico caso di territorio dove si sono combattute guerre spinte da narrative costruite ad arte e supportate da sentimenti popolari appositamente promossi […] The post Dentro il “nuovo” Afghanistan: il regime talebano visto da dentro appeared first on L'INDIPENDENTE.

Se dovessimo coniare una parola per descrivere la continua rielaborazione degli stessi fatti storici riguardanti conflitti internazionali a fini propagandistici, questa potrebbe avere il nome di “afghanizzazione mediatica”. Quello dell’Afghanistan non è certo l’unico caso di territorio dove si sono combattute guerre spinte da narrative costruite ad arte e supportate da sentimenti popolari appositamente promossi da governi invasori.
Di tutti i luoghi in cui questo fenomeno è avvenuto nella storia contemporanea, però, l’Afghanistan è certamente uno di quelli in cui si è ripetuto con più frequenza. Qui, inoltre, vi è stato il minor interesse nel riprendere in mano gli eventi con maggiore lucidità per riscrivere la storia senza dover seguire la narrazione bellica e pre-bellica dei fatti prodotta dalle potenze che hanno compiuto la guerra in oggetto.
Dentro il regime, ma con i social media
Dopo essere stato in Afghanistan a novembre 2024, questo fenomeno mi è apparso molto chiaramente davanti. L’Afghanistan dei talebani vive, dopo il reinsediamento del movimento di matrice religiosa islamica sunnita al governo de facto del Paese, nel 2021, un tentativo di apertura verso l’esterno. Questa sta tuttavia passando quasi inosservata sui media tradizionali, nonostante sui social media siano sempre più numerosi contenuti che suggeriscono di viaggiare nel Paese, mostrandone le bellezze archeologiche, paesaggistiche e culturali.
Questi video spesso promuovono, direttamente o indirettamente, il turismo in Afghanistan e mostrano come le condizioni di sicurezza siano molto migliorate rispetto agli ultimi vent’anni. Ancor più importante però, mostrano i talebani come un gruppo sì simile a come li si conosce, ma tutto sommato accogliente e innocuo verso gli stranieri. Per capire l’emersione di questo nuovo fenomeno mediatico, molto più in mano alla popolazione comune piuttosto che ai media tradizionali, bisogna capire come si è arrivati fino a questo punto storico e “come sta”, ora, l’Afghanistan.
Da “Freedom fighters” a “pericolo globale”

L’imprevedibilità della situazione interna dell’Afghanistan è sempre stata una costante nella storia del Paese sin dal periodo delle guerre contro i britannici, iniziato con una storica disfatta di questi ultimi nel 1842 e conclusosi nel 1919 con la firma degli accordi che avrebbero portato alla definizione dell’attuale confine tra Afghanistan e Pakistan.
Da quel quarantennio di giochi tra potenze, principalmente Regno Unito e Impero russo, il Paese ha visto diversi cambi di regime, periodi di stabilità interrotti da colpi di Stato e, più recentemente, una guerra civile caratterizzata da un’anomia politica che ha permesso l’emersione di gruppi come quello talebano.
Fino agli anni ’90, cioè fino a quando l’URSS non si era ancora ritirata dall’Afghanistan e i mujaheddin (da una cui costola nacquero proprio i talebani) erano finanziati in chiave anti-sovietica da USA, Arabia Saudita e Cina, gli uomini barbuti che venivano dalle montagne erano una risorsa. Come diceva l’ex presidente degli Stati Uniti d’America Jimmy Carter in un suo famoso discorso alla nazione trasmesso sulle TV statunitensi, l’invasione sovietica dell’Afghanistan era «un intenzionale sforzo di un potente governo ateo di soggiogare un popolo musulmano indipendente».
Il movimento raggiunse il suo apice dapprima nel 1996, prendendo controllo di gran parte del Paese presto sbaragliato dall’invasione statunitense del 2001. A partire dagli anni immediatamente precedenti l’invasione, i talebani vennero dipinti nei media nostrani (e di tutto l’Occidente) come un movimento altamente ostile e pericoloso per l’intera umanità. Dai divieti per le donne alla conversione dei cinema in moschee, i talebani, amici di al-Qaeda, erano uno dei nuovi mali assoluti sul piano internazionale.
Nel 2020 le carte in tavola cambiano ancora. Dopo gli accordi di Doha, firmati tra Stati Uniti e governo talebano (riconosciuto de facto da numerosi Paesi nel mondo, ma non ufficialmente a livello internazionale), l’immagine e l’atteggiamento dei talebani sono iniziate a cambiare lentamente.
Il “Nuovo” Emirato Islamico, amici (e nemici) come prima

Non è da poco il fatto che gli Stati Uniti abbiano siglato degli accordi con il governo talebano nel 2020, dotandolo di fatto di un’implicita autorità sul territorio afghano. E non è da poco neanche che degli accordi di Doha sia stata pubblicata solo una parte, mantenendone secretata un’altra – la cui esistenza è tuttavia stata annunciata sin da subito. Una mossa che potrebbe servire in futuro, in particolare agli Stati Uniti, per ricorrere al ricatto in caso le promesse dei talebani esplicitate nella parte segreta non venissero mantenute, oppure per legittimare un’azione strategica che, in un determinato momento storico, sarebbe invece inaccettabile per l’opinione pubblica sulla base della sola parte pubblica degli accordi.
Mentre i rapporti con Washington e l’Occidente rimangono ufficialmente freddi, la Turchia finanzia la costruzione di moschee nel Paese, come suo solito nella sua area di interesse strategico, usando l’Islam come legame culturale e identitario per esercitare il proprio soft power, laddove la carta dell’etnicità turca non sia utilizzabile. Gli Emirati Arabi Uniti intrattengono rapporti formali con i talebani, ospitando un loro ufficio consolare a Dubai che, curiosamente, espone ancora la bandiera della ormai decaduta Repubblica Islamica. Proprio a Dubai ha poi sede la Alokozay, azienda produttrice di tè, acqua in bottiglia e altri prodotti alimentari molto conosciuta in Asia occidentale.
Fondata da un imprenditore afghano, questa prende il nome di una tribù pashtun, la quale mantiene presumibilmente ancora contatti con il governo talebano, essendo di gran lunga il principale fornitore di acqua in bottiglia del Paese.
I rapporti con altri Paesi a maggioranza musulmana sono sempre più sviluppati: per questo, in Afghanistan, i musulmani sono i benvenuti ovunque, potendo contare anche su ingressi gratis nelle moschee e in alcuni luoghi turistici. I non musulmani, in quanto turisti, sono comunque trattati mediamente con accoglienza, data comunque la risorsa economica e di soft power sottesa al turismo internazionale.
I turisti devono tuttavia sottostare a regole precise, anche se queste vengono sempre meno applicate. Tra le più importanti, vi è il divieto assoluto di fotografare e riprendere donne, dovuto a una volontà di preservarne (dal punto di vista talebano) la dignità. La decisione si muove soprattutto verso una progressiva totale proibizione della diffusione di immagini di volti di esseri viventi, in accordo con la loro interpretazione dell’Islam sull’idolatria. I volti umani, e anche quelli animali, sono stati per questo censurati su molti cartelloni pubblicitari e vetrine delle città.
Alcune di queste misure seguirebbero, secondo alcuni osservatori esterni, la corrente di pensiero di stampo wahhabita propria del pensiero politico arabo-saudita. Pure i sauditi, seppur in maniera forse più coerente dei talebani, avrebbero infatti realizzato una delle più grandi campagne di “marketing strategico” sul piano internazionale degli ultimi decenni, producendo risultati formidabili nella loro legittimazione (o quantomeno tolleranza) da parte di popolazioni come quella occidentale. I talebani, incentivando l’ingresso di visitatori e capitali nel Paese, potrebbero star tentando la stessa strada, partendo tuttavia da una posizione molto più svantaggiata in termini di risorse, capacità e, soprattutto, di reputazione internazionale (tra le peggiori al mondo).
L’immagine dei talebani sembra essere il più grande nodo della questione, difficile da sciogliere per la stessa élite talebana, la quale in parte ancora spinge per il mantenimento del vestiario militare e degli AK-47 sempre a tracolla, simbolo dell’onore e della valorosità del combattente tipico della cultura pashtun. Dal modo in cui i talebani si sono presentati a Doha nel 2020 e in vari recenti incontri internazionali (come ad esempio all’ultima COP), sembra tuttavia che stiano cercando di adottare una corrente più “formale” e “diplomatica” anche sul piano estetico, neutralizzando gli elementi fisici che rendono i talebani tanto riconoscibili, ma anche ostili, all’occhio di un osservatore esterno – in particolare occidentale.
Non tutti sono “così talebani”

L’opinione interna afghana, intanto, prende delle pieghe interessanti. Se nei primissimi tempi del nuovo governo i talebani erano visti da moltissimi afghani con assoluto terrore, a causa anche della violenza e della disorganizzazione con cui presero il potere ad agosto 2021, oggi la popolazione comincia a rendersi conto che il Paese potrebbe, dopo quasi 50 anni di squilibri, tendere verso la stabilità. L’accettazione dei talebani da parte del popolo non avviene però senza compromessi: oggi, quella in atto è più che altro una sopportazione da parte delle minoranze non pashtun e non direttamente connesse alla struttura del potere pashtun. La diffidenza tra queste e governo rimane alta, ma se la situazione si mantenesse pacifica e le restrizioni venissero sempre più ridotte, anche per molti afghani rimasti nel Paese i talebani potrebbero un giorno diventare un governo legittimo e autorevole. In merito a tematiche quali l’educazione delle donne, tuttavia, non sembrano esserci miglioramenti in vista. E non ve ne saranno almeno fino a quando tali cambiamenti non diverranno convenienti sul piano strategico.
L’Afghanistan è ancora in guerra?

Nel frattempo, l’Occidente rimane ancora largamente fisso sulle immagini del passato. Non tanto da un punto di vista morale e culturale, quanto da quello degli sviluppi economici e geopolitici in atto nella regione. I talebani continuano a usufruire degli aeroporti delle principali città del Paese, costruiti inizialmente a scopi militari con il finanziamento anche di alcuni Stati europei (tra cui l’Italia, con un prestito di 137 milioni di euro dai termini mai chiariti) e oggi usati per voli commerciali interni e verso l’estero. Molti verso Dubai, ma anche verso Paesi che intrattengono rapporti con l’Emirato, come Pakistan e Turchia.
In questo quadro di drammatica obsolescenza della nostra informazione, trovano spazio video di creatori di contenuti che mostrano immagini di un Afghanistan “come non te lo aspettavi”, ricco di tradizioni e bellezze. In questo contesto, i talebani sono rappresentati tanto “umani come noi” quanto nella forma di goffi sempliciotti che, armati di AK-47, danno vita a situazioni tragicomiche degne di diventare virali sui social.
Di fronte a questo grottesco scenario mediatico, bisogna tornare urgentemente a reinterpretare e conoscere l’Afghanistan e la sua storia, avendo quindi a che fare anche con coloro che, piaccia o meno, lo stanno governando in maniera incontrastata da alcuni anni a questa parte.
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