Così l’Occidente può tramontare con giudizio: almeno dal Novecento non siamo il vertice dell’umanità

di Sara Gandini e Paolo Bartolini L’Occidente ha, nella parola stessa, un destino di tramonto. Succede a ogni civiltà, ma la nostra – così abituata a ostentare potenza e a dominare sulle altre – fatica ad accettare il ciclo degli eventi storici. Le guerre in giro per il mondo, per non parlare delle altre crisi […] L'articolo Così l’Occidente può tramontare con giudizio: almeno dal Novecento non siamo il vertice dell’umanità proviene da Il Fatto Quotidiano.

Mag 18, 2025 - 10:10
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Così l’Occidente può tramontare con giudizio: almeno dal Novecento non siamo il vertice dell’umanità

di Sara Gandini e Paolo Bartolini

L’Occidente ha, nella parola stessa, un destino di tramonto. Succede a ogni civiltà, ma la nostra – così abituata a ostentare potenza e a dominare sulle altre – fatica ad accettare il ciclo degli eventi storici. Le guerre in giro per il mondo, per non parlare delle altre crisi sistemiche, risentono fortemente delle brame espansive della cultura euro-americana.

In particolare la modernità occidentale, che prende forma al crocevia di tre fenomeni enormi: colonialismo, capitalismo e scienza basata sulle scritture matematiche e orientata all’applicazione tecnologica (“scienza è potenza” diceva con grande onestà Francis Bacon), ha diffuso globalmente le sue logiche quantitative, di accumulazione economica e di manipolazione del vivente. Separando nettamente società e natura, e abbracciando il dualismo cartesiano per un via libera nello studio degli organismi, il progetto modernista ha impresso il suo sigillo riduzionista alla ricerca del bene comune e ai processi di conoscenza. L’oggettivazione, l’astrazione e l’estensione ubiqua delle logiche di calcolo sono operazioni permanenti che danno a un presunto soggetto separato dal mondo l’illusione di poter governare l’altro, ovviamente per trarne un tornaconto.

Questo impoverimento simbolico, associato al potenziamento inarrestabile degli strumenti tecnici per intervenire sulla realtà, mostra oggi i suoi effetti drammatici. Su più versanti – ecologico, sociale, dei rapporti internazionali, educativo, di ricerca scientifica, della salute… – la smania di dominio occidentale ha provocato lacerazioni e conflitti difficili da sanare. Il mondo multipolare che sta prendendo forma sta nascendo tra gli spasmi di un’egemonia in declino (quella americana, ma anche quella del Vecchio Continente) che non vuole rinunciare ai suoi privilegi. Accade dunque che il tramonto dell’Occidente si tinga di rosso sangue, con il moltiplicarsi delle contese per l’energia, per i territori, per l’accesso alle risorse, per il potere.

Sono due gli errori clamorosi che noi vediamo in questa fase turbolenta della storia mondiale: il primo è quello di tentare in ogni modo di rilanciare le logiche che ci stanno conducendo alla catastrofe (il business as usual, il There Is Not Alternative, lo sfruttamento spietato degli umani e degli ecosistemi, l’uso delle armi come soluzione per le controversie tra Stati, la privatizzazione dei beni comuni, il suprematismo bianco); il secondo è buttare via il bambino con l’acqua sporca, cioè considerare l’identità occidentale solo alla luce delle sue innumerevoli colpe e responsabilità, auspicando il suicidio di un’intera tradizione.

Cosa potrebbe fare, dunque, l’Occidente che si è macchiato di milioni di morti tra imperialismo, colonialismo, guerre mondiali e violenze continue a firma Nato? Ecco, due sono i movimenti che ci sembrano necessari: 1) accettare di tramontare con giudizio, cedere potenza coltivando i processi diplomatici a tutti i livelli, aprire dei negoziati con gli altri attori globali per rispondere insieme alle sfide del Terzo Millennio e quindi ripensare il sistema economico nella sua globalità senza dare per scontato che il capitalismo sia l’unica possibilità e quindi rimettere al centro di ogni discussione le contraddizioni di questo mondo, dalle diseguaglianze sociali ai flussi migratori, le guerre, il disastro ambientale…; 2) valorizzare gli aspetti più degni della nostra tradizione e portarli – come diceva il sociologo ed antropologo Bruno Latour – al tavolo dei negoziati per offrirli anche agli altri popoli e culture. Non si tratta di immaginare sincretismi improvvisati, tanto meno di imporre ciò che per noi è irrinunciabile. La questione, piuttosto, è saper comunicare ciò che amiamo della nostra storia e adattarlo ai tempi per far sì che il dialogo con gli altri avvenga su basi paritarie.

Tutto questo può accadere solo se l’Occidente fa tesoro di una sua conquista epocale nel campo del pensiero: almeno dal Novecento abbiamo imparato, infatti, che non siamo il vertice dell’umanità e che la stessa idea di “universalità” è maturata dentro il tracciato di un percorso singolare, storicamente determinato. Perciò non è più credibile la pretesa, arrogante e feroce, di “esportare la democrazia” o insegnare a cinesi, russi, africani, asiatici e sudamericani qual è il Bene assoluto. Del resto quelli che abbiamo chiamato gli aspetti più degni della nostra storia – la ricerca filosofica e scientifica, i diritti dei singoli individui, la libertà di espressione, la laicità, il pluralismo delle opinioni, l’ideale convivenza pacifica tra persone differenti per etnia, genere, orientamento sessuale, credo religioso – includono l’autocritica e l’autoriflessione come metodo e guida. Da questa capacità di problematizzare l’ovvio derivano per noi lo spirito critico, il desiderio di trasformazione sociale e di giustizia, l’avventura dell’arte e del pensiero.

Abbracciare il meglio della nostra tradizione, e chiedere scusa per la moltitudine di prepotenze con cui abbiamo troppo a lungo assoggettato chi la pensava diversamente da noi, può essere la via giusta per preparare, dopo il tramonto e la notte di questa era di transizione, una nuova alba per ciascuno/a di noi facendo tesoro delle differenze, in primis quelle tra uomini e donne.

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