Chiamami col tuo acuto. E Guadagnino si mette all’opera
Il regista porterà in scena “The Death of Klinghoffer“ di John Adams, che aprirà il prossimo Maggio fiorentino

Iniziato un festival, è già tempo di pensare al prossimo. E così dal cilindro di Carlo Fuortes, sovrintendente del Maggio musicale fiorentino, è uscito ieri l’annuncio dell’opera inaugurale del Mmf prossimo. E qui la scelta è spiazzante come se l’avesse fatta il Cappellaio matto (in senso buono, per carità). Bum! numero uno, sarà The Death of Klinghoffer di John Adams e, bum! numero due, avrà la regia di Luca Guadagnino.
L’opera di Adams non è affatto nuova, visto che risale al 1991, ma lo sembra per un teatro musicale come quello italiano mummificato nella sua eterna ripetizione di "Tosche" e "Traviate": i diversamente giovani come chi scrive ne ricordano anche un paio di esecuzioni, nel 2002 al Comunale di Ferrara e in quello di Modena. Scelta comunque stimolante e molto italiana. Leon Klinghoffer, americano, ebreo e paraplegico, era a bordo dell’Achille Lauro quando la nave fu sequestrata da un commando palestinese nell’85. I terroristi lo assassinarono gettandolo a mare sulla sua carrozzella; ne seguì anche la famosa crisi diplomatica di Sigonella fra Craxi e Reagan. Il teatro d’opera contemporaneo americano è vivacissimo, quindi la scelta di Adams è molto stimolante, anche se il suo capolavoro mi sembra Nixon in China. Ma naturalmente l’attenzione si concentra su Guadagnino.
Mettere all’opera i registi di cinema serve soprattutto a far parlare i giornali, quindi il risultato, come vedete, è già stato raggiunto. Guadagnino poi con la lirica si era già cimentato, un Falstaff al Filarmonico di Verona nel ‘12, in una curiosa ambientazione mediorientale ma dove tutti rifacevano, più o meno, le solite gag di "tradizione". Qui bisogna intendersi. La regia al cinema e la regia a teatro, specie quello musicale, sono due lavori del tutto diversi, che richiedono competenze diverse e, volendo, anche molto specializzate. I risultati sono quindi alterni. È chiaro che, per esempio, Visconti, Zeffirelli prima della fase dell’accumulazione seriale o Chéreau firmarono dei capolavori in entrambi i casi. Hanno funzionato anche Haneke, Tarkovskij, Terry Gilliam (specie in Berlioz); la Butterfly di Anthony Minghella, benché al Met di New York che, quanto a regie, è all’avanguardia della retroguardia, era assai interessante. Ma, per dire, il Gianni Schicchi messo in scena da Woody Allen fu una delle cose più tremende mai viste alla Scala.
Di regola, il regista di cinema che deve fare l’opera si spaventa quando scopre che è la musica a dettare la drammaturgia, che c’è un coro da muovere e che non si può rifare nulla, è sempre buona la prima (quando poi è buona), quindi di solito dichiara il suo ossequio per le didascalie e lì si ferma. Fuortes ne sa qualcosa perché fu lui, quand’era all’Opera di Roma, a scritturare Sofia Coppola per una Traviata così insulsa che in un eventuale campionato dell’insulsaggine sarebbe arrivata seconda.
Per restare in Italia, con il melodramma non hanno brillato nemmeno Ozpetek, Olmi, Argento, Bellocchio, mentre su Liliana Cavani si può discutere e Mario Martone funziona benissimo. In ogni caso, a Guadagnino l’opera piace, basti pensare all’Andrea Chénier citato fin dal titolo del suo film Io sono l’amore del 2009, o alle musiche di John Adams utilizzate in Chiamami col tuo nome, 2018. Per ora, spiega che questo titolo "interroga fin dal suo apparire la profonda complessità di conflitti che affondano nel mito per irrompere nella storia" e anticipa che "la sublime purezza della musica di Adams e del libretto di Alice Goodman saranno la mia guida", eccolo lì. Chi vivrà vedrà. L’inconveniente, semmai, alla prima del 19 aprile 2026, sarà la salita in massa da Roma a Firenze della fauna dei cinematografari, che è perfino più molesta di quella dei melomani.