Chi ha steccato al Festival di Sanremo 2025
Tutta l'Italia? Non proprio, anche quest'anno il Festival di Sanremo è scivolato sulla buccia di banana dell’abilismo. Il post di Alfredo Ferrante tratto dal suo blog

Tutta l’Italia? Non proprio, anche quest’anno il Festival di Sanremo è scivolato sulla buccia di banana dell’abilismo. Il post di Alfredo Ferrante tratto dal suo blog
I numeri parlano chiaro: con un picco di quasi 14 milioni di telespettatori per la quarta serata, il Festival di Sanremo si conferma, dopo 75 primavere, l’evento nazionalpopolare per eccellenza, capace di calamitare l’attenzione generale di pubblico e mezzi di comunicazione per un’intera settimana. Un po’ empireo dell’arte canora e un po’ ricettacolo kitsch, anche quest’anno, tuttavia, il Festival è scivolato più e più volte sulla buccia di banana dell’abilismo, riproponendo pervicacemente un’immagine emozionale e semplificata delle persone con disabilità che ne perpetua l’infantilizzazione, la minorità, la dimensione di separatezza.
Piaccia o meno, la macchina messa in piedi per Sanremo è certamente in mano a professionisti di livello, partendo dal conduttore sino ai lavoratori del dietro le quinte: eppure, nella costruzione di alcuni passaggi si è evidentemente peccato di grave superficialità. Quel “nonostante tutto” riferito a Sammy Basso, ricordato da Carlo Conti con Jovanotti, o il “soffrono di disabilità” riferito agli attori del Teatro Patologico promosso da Dario D’Ambrosio, presentati in modo francamente paternalistico, per citare due clamorosi passi falsi, testimoniano la scarsa attenzione degli autori nell’approfondire il significato della dimensione della disabilità, che non è malattia, sofferenza o dannata sfortuna ma, come ha evidenziato l’OMS, parte della condizione umana.
È questo il motivo per cui la Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità del 2006 mette in relazione la disabilità con il permanere di barriere, fisiche e sociali, che escludono un numero rilevantissimo di persone dal pieno godimento dei propri diritti, gli stessi di cui godono le persone senza disabilità. Se a questo si aggiungono le difficoltà che una persona con disabilità avrebbe potuto affrontare nell’acquisto di un biglietto per il Teatro Ariston (c’erano spettatori con disabilità? E come erano posizionati?), non resta che concludere che il Festival appare perfettamente in linea con la società che inevitabilmente rappresenta, ancora terribilmente in ritardo per dirsi pienamente inclusiva. Entrambi, tuttavia, possono imparare. E crescere. La sfida più grande è quella del cambio di marcia culturale, lasciandosi dietro stereotipi e pregiudizi duri a morire e tenendo ben presente che, come splendidamente statuisce – rectius, grida – l’articolo 3 della Costituzione italiana, l’uguaglianza formale va puntellata da quella sostanziale, riservando alla Repubblica il fondamentale compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Va chiarito un aspetto. Non è in discussione la buona fede di chi ha inteso portare sul palcoscenico più popolare d’Italia la disabilità. E va, allo stesso tempo, ricordato che l’accessibilità della kermesse è assicurata da tempo per le persone sorde e le persone cieche, grazie a sottotitolazione, audiodescrizione e traduzione LIS, sia in diretta, sia su Rai Play. Il punto è che il Festival continua testardamente, dopo anni, a non imparare dai propri errori. Le tante critiche mosse in questi giorni, molte delle quali avanzate proprio da persone con disabilità, dovrebbero suonare da campanello d’allarme per una macchina dello spettacolo e dell’intrattenimento che tende a spettacolarizzare, in maniera pornografica, qualsiasi cosa: da grandi ascolti, potrebbe dirsi, derivano grandi responsabilità.
Mentre un recente, rivoluzionario decreto legislativo ha, fra l’altro, finalmente espunto dall’ordinamento termini come handicap o persona handicappata, restituendo senso alle parole e alle persone, un cambio di passo è necessario in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Non è una questione di politicamente corretto o di mero aggiornamento nominalistico, ma di centrare l’attenzione sulla persona e sui suoi inalienabili diritti. E se il Festival ambisce a rivolgersi a tutta l’Italia, come ha ossessivamente recitato per cinque lunghissimi giorni il motivetto della manifestazione, farebbe bene a ricordarsene.
(Post pubblicato sul blog Tantopremesso)