Altro che baciarlo lì, i big di tech e finanza tengono Trump per le…

Dice garbatamente Donald Trump che i colossi della Silicon Valley – gli stessi che fino a sei mesi fa erano appassionati sponsor di Biden e di Kamala Harris – ora fanno a gara a baciargli il posteriore. Ebbene: l’uomo dal riporto d’oro rimbalzato alla Casa Bianca per la nauseante insipienza dei dem americani – e […] L'articolo Altro che baciarlo lì, i big di tech e finanza tengono Trump per le… proviene da Economy Magazine.

Mag 4, 2025 - 23:34
 0
Altro che baciarlo lì, i big di tech e finanza tengono Trump per le…

Dice garbatamente Donald Trump che i colossi della Silicon Valley – gli stessi che fino a sei mesi fa erano appassionati sponsor di Biden e di Kamala Harris – ora fanno a gara a baciargli il posteriore. Ebbene: l’uomo dal riporto d’oro rimbalzato alla Casa Bianca per la nauseante insipienza dei dem americani – e per lo strapotere dei social, ma di questo parlaremo – stavolta ha toppato. E’ vero che Meta, Google e Amazon hanno fatto prestissimo a smontare tutti gli impegni assunti sulla “Dei” (diversity and inclusion) al primo stormir di ordine esecutivo, ma sbaglia Trump – nel suo delirio narcisista – a confondere la loro entusiastica adesione con un consenso sostanziale. L

’ambiente della Silicon Valley è da sempre a dir poco maschilista, e l’inclusione è praticata come quella dei gatti in tangenziale: se mai includevano, era solo per far fuori gli inclusi alla prima curva. Con Biden, mentendo da quegli ignobili ipocriti che sono tutti, i vari Zuckerberg e Bezos dicevano ai loro manager tirapiedi di fingere di rispettare quelle regole, e oggi sono stati ben lieti di poter smontare questa finzione grazie al Troglodita nazionale ritornato a Washington.

Trump ha stoppato l’Antitrust

In realtà Trump, in nome dell’ideologia Mega, ed anche a causa dei consigli allucinati di Musk, ha di fatto vanificato quel faticoso processo di civiltà che aveva condotto l’Antitrust americano – nonostante la corruzione dei Dem – alla decisione di imporre a Google di vendere Chrome e forse Youtube a sarebbero probabilmente arrivati a far lo stesso con Meta.

Ma Trump adesso ha ben altri obiettivi: vuole difendere i suoi “campioni digitali” perché sa che la Cina difenderà i propri; ed anzi che il destino di Tiktok negli Usa sia segnato – una vendita a mani americane, o una chiusura – appare ormai certo. Zuck, Bezos e il trio Brin, Page e Pichai di Google sanno di essere protetti dall’anti-cineseria del Presidente, e quindi…

Quindi Silicon Valley batte Casa Bianca uno a zero. Anche se Casa Bianca finge di non saperlo.

Ma anche Wall Street batte Casa Bianca, addirittura due a zero. E vediamo perché.

I mercati hanno piegato il Biondo

E’ vero che Trump ha dimostrato che un suo starnuto pre-legislativo (nel senso che gli ordini esecutivi sui dazi, più che norme di legge sono un impasto di contraddizioni e stop-and-go) può sconvolgere il mercato; ma è anche vero che lo sconvolgimento del mercato causato da quei conati di legge ha dimostrato di avere una tale forza da costringere il troglodita biondo a una clamorosa retromarcia, e da bloccargli di fatto la mano, almeno per ora, con cui vorrebbe firmare il licenziamento di Jerome Powell, pietra d’inciampo neanche troppo eroica (i banchieri centrali sono talmente creativi che sicuramente Chat Gpt potrebbe sostituirli domattina in blocco!) sulla strada dell’economia autarchica vagheggiata dal presidente.

Dunque la  Casa Bianca, la mitica icona del potere politico mondiale, l’altare della democrazia, il sogno di miliardi di umani… si rivela dipendere dalla grande finanza internazionale, che a sua volta fa capo a una decina di mammasantissimi americani; e deve scendere a patti con quattro o cinque tecnocrati esaltati. Lo sapevamo, e lo scrivevamo, da tempo: ma adesso solo i ciechi possono dire di non vederlo.

Caporetto della politica, Waterloo della democrazia

Non  basterebbe tutto questo per parlare di Caporetto della politica, e di Waterloo della democrazia, contro soldi e microchip, se non si dovesse aggiungere all’analisi anche l’evidenza delle dinamiche socio-psicologiche che attraverso i social media agiscono sull’elettorato in tutti i Paesi democratici (abituiamoci a dire: cosiddetti democratici). Aggiungendo all’analisi anche quest’evidenza, ci accorgiamo che oggi a determinare non solo l’elezione di Trump o la vittoria di Farage alle amministrative britanniche, ma anche le pur deboli glorie dei leader ad essi antagonisti che qua e là si riscontrano, sono soltanto i social media.

E i social nutrono gli “animal spirit” peggiori. Perché? E’ semplice, ma va ripetuto mille volte, perché gli addict dei social – e lo siamo un po’ tutti – negano l’evidenza per non confessarsi a loro volta un poco (o tanto) rincoglioniti.

Oggi, per “bucare” il velo dell’indifferenza on-line, bisogna spararle grosse, grossissime. Banali, estreme, martellanti. E’ l’unico tipo di messaggio politico che in Rete cammina. Il resto non lo nota nessuno. I media tradizionali, boccheggianti anche negli Usa, a corto come sono di lettori e/o abbonati paganti e dunque succubi di contributi pubblici e investitori pubblicitari, non possono che lavorare sempre peggio, facendo puramente da “eco legittimante” alla fuffa aggressiva dei social.

Quindi, e in sintesi: l’oligarchia della finanza globale e della tecnocrazia americana effettivamente si occupa del basso ventre di Trump, ma non per dargli baci servili, bensì nel senso che – ci siaconsentito l’uso di un’immagine controlaterale per efficace volgarità – lo “tengono per le palle”.

Più social, meno politica, più anarchia

Nel frattempo, i social – che appartengono alla stessa oligarchia tecnocratica di cui sopra – danno eco soltanto alla feccia e la nobilitano a movimento politico d’opinione ufficiale, anzi sostanzialmente a unica e sola voce della democrazia.

E in questa spaventosa “sostituzione etnica” della politica, cosa accade? Accade che si accendono mille focolai di anarchia. E’ ovvio: l’anarchia è nel nostro sangue, e dove trova spazo si espande. Ormai, impazzano tutti.

E dunque in Italia, a un giudice che – con decisione sacrosanta (capita perfino a qualche giudice italiano di fare la cosa giusta) – ha intimato ai social media di rivelare l’identità di un gruppo di “odiatori da tastiera” che aninomamente hanno attaccato in Rete la Senatrice Liliana Segre, ebbene: i social hanno risposto picche.

Riporta Il Sole 24 Ore: “Facebook e Instagram hanno comunicato di aver assunto in carico le richieste e hanno risposto solo su base discrezionale; Google ha comunicato che il diritto dell’utente di avere opinioni e diffondere idee libere da interferenze dell’autorità pubblica prevale sul legittimo interesse delle forze dell’ordine nelle indagini; Twitter ha risposto su base discrezionale ritenendo di poter comunicare i dati in possesso, sia di registrazione sia di connessione, solo per alcuni degli account richiesti; Telegram non ha fornito alcuna risposta».

Chiaro?

Gli oligarchi del web se ne battono dell’antisemitismo, delle loro enormi responsabilità sociali, dei delitti che la gette commette ogni giorno ispirata dalla Rete; e se ne battono tanto più della magistratura. E noi cittadini contribuenti che ancora votiamo credendo allo Stato di diritto? Non ci possiamo fare niente. Se un “hater” ci punta, peggio per noi.

Lo Stato di diritto distorto

Quanto allo Stato di diritto, intanto che l’uomo dal riporto d’oro “spammava” ordini esecutivi, in America 17 giudici distrettuali (su 677) ne bloccavano più della metà. Giudici, sia chiaro, eletti! Quindi politicizzati per definizione. Per noi italiani, nessuna sorpresa: è il lavoro che fanno da sempre i Tar, e i Pm: meno politicizzati formalmente, ma anche di più sostanzialmente, attraverso le loro lobby. Bloccare decreti governativi, spernacchiare il ruolo e il lavoro dell’esecutivo.

E perché, e come, dovremmo ancora credere alla democrazia, se i “contrappesi” di cui l’abbiamo dotata la vanificano?

Qualche anima bella dirà che è un bene se un giudice boccia una legge sbagliata. Parliamone: il giudice è solo un signore che ha studiato diritto. Una legge, se le regole funzionano, la vara un’assemblea eletta dai cittadini. Chi preferiamo? Un singolo – che in quel momento è dittatore – o un’assemblea?

Se invece anche il giudice, come in America, è spesso un eletto, e allora si elegga in un’unica sede sia il legislatore che il giudice, e che il bilanciamento dei poteri avvenga a carte pari…

Illusioni, chimere. Le toghe hanno sempre prosperato, prima e durante le dittature. Prima, perché la politica era debole; dopo perché gli bastava allinearsi col dittatore.

Inizia a funzionare così non solo in Italia, dove i Tar e i Pm da decenni prendono la politica per le orecchie, e spesso anche con ragione, ma poi tendono a sostituirsi totalmente ad essa, e lo dicono in tutte le salse purchè torbide. Funziona così anche negli States, a dispetto dei toni da “democratura” sbandierati dall’Alcolico biondo. Che dittatore è, un Presidente che può essere sbugiardato da un giudice distrettuale?

Insomma: mal comune, in mezzo al guano.

L'articolo Altro che baciarlo lì, i big di tech e finanza tengono Trump per le… proviene da Economy Magazine.