Alienazione, familiarizzazione e FantaSanremo
Una delle dinamiche del capitalismo, riconducibile ai suoi caratteri di espropriazione e di espansione globale, consiste nel separarci da ciò che ci è proprio o è comune a noi e […]

Una delle dinamiche del capitalismo, riconducibile ai suoi caratteri di espropriazione e di espansione globale, consiste nel separarci da ciò che ci è proprio o è comune a noi e alle persone a noi prossime – ecco qui il concetto di espropriazione – e nel farci familiarizzare con entità esotiche sussunte sotto forma di merci – qui, invece, si dà la tendenza espansionistica del capitale. Il capitalismo, in altre parole, ci separa da ciò che ci appartiene e ci approssima quanto ci è estraneo.
Il compito di questa familiarizzazione è demandato all’apparato semiocapitalista[1], che si articola nell’ambito dei media di comunicazione di massa e dello spazio digitale. Sia i mass media che i dispositivi digitali ci avvicinano, per una durata potenzialmente coincidente con quella del nostro quotidiano, stili di vita, pratiche e comportamenti incarnati da nostri simili in uno spettacolo ininterrotto.
Questi uomini e donne diventano così per noi dei modelli[2] e finiscono per dominare il nostro immaginario come fantasmi di amici e amiche di più o meno vecchia data: la loro funzione è colmare il vuoto dell’espropriazione che abbiamo subito, anestetizzando il nostro sentimento di alienazione. L’influenza di cui essi godono deriva da quella del medium di comunicazione di massa e del dispositivo digitale quali strumenti che consentono di realizzare un dominio idealistico sul mondo, cioè un’unione totale della coscienza con l’oggetto-mondo, smaterializzato nello spazio digitale per essere còlto senza barriere dal pensiero. Possiamo così illuderci di appropriarci dell’intera realtà e ricomprenderla nel nostro pensiero semplicemente mediante l’accesso allo smartphone: il suo possesso custodisce nelle nostre tasche e offre alle nostre mani (e prima di tutto alla nostra coscienza) una simile promessa di dominio idealistico sul mondo[3].
Questo dominio si caratterizza come idealistico perché rappresenta il trionfo del soggetto pensante sull’oggetto-mondo. Tuttavia, il soggetto così trionfante arriva ad abbandonare ogni pretesa di conoscenza, limitandosi a “leggere, nei dati, le loro astratte relazioni spaziotemporali, per cui si possono prendere e maneggiare”, anziché “intenderli invece come la superficie”, cioè come entità interpretabili “solo nell’esplicazione del loro significato sociale, storico e umano”[4]. Il mondo diviene allora misura di se stesso: ciò significa che si ragionerà sulle sue sorti sempre in termini di miglioramento, cioè di progresso, e mai di utopia, dunque di trascendenza; nel sottomettere il mondo al nostro formalismo logico-matematico, finiamo per sottomettere la nostra ragione “a ciò che è dato senz’altro”, dunque allo status quo[5].
Negata qualunque trascendenza, la nostra attività sociale si riduce all’adoperarsi per parlare la stessa lingua dei modelli, per metterci su un piede di parità con questi attori di quello spazio deterritorializzato che è l’oggetto-mondo. A tal fine dobbiamo dotarci del loro stesso valore, in quanto incarnato in segni e simboli e dunque espresso da valori-segno[6]: solo così avremo un codice di comunicazione condiviso con loro e saremo socialmente equivalenti, cioè dotati di uno status analogo al loro. La promessa implicita è quella che noi stessi possiamo aspirare a diventare modelli. Questa promessa di realizzazione personale si lega a quella di dominio idealistico del mondo: diventando noi stessi i modelli potremo imperversare per quel globo che proprio i dispositivi digitali ci presentano così trasparente e accessibile e saremo liberi di librarci su di esso non solo con il nostro pensiero ma anche con la nostra immagine. Nello spazio digitale l’immagine spiega le sue ali sull’oggetto-mondo e a sua volta si riduce a oggetto da cogliere. La nostra dimensione di oggetto prevale su quella di soggetto storico.
Mettere in pratica questo scambio di segni e simboli presuppone accettare lo scambio di denaro contro merce che è necessario per dotarsi di essi, significa, in altre parole, accettare l’espropriazione compiuta dalla società capitalista, la quale ci consegna al mercato.
L’alienazione – il sentimento di estraniazione verso il prodotto del nostro lavoro, espropriatoci dal capitale, e verso il nostro lavoro stesso, eterodiretto sempre dal capitale – cede il passo al feticismo delle merci che risultano necessarie per completare la conformazione ai modelli.
Dunque, il feticismo delle merci è l’anestetico del sentimento di alienazione: instaura un rapporto sociale di dipendenza dell’essere umano dalle merci[7] che popolano lo spettacolo e saturano il tempo libero. Questa assuefazione deve riappacificare l’essere umano con se stesso a fronte dell’estraneità percepita, durante il tempo del lavoro, rispetto all’attività lavorativa e al suo prodotto.
Il conformismo ai modelli è il corollario del feticismo delle merci perché, a un rapporto sociale di dipendenza dalle merci, fa necessariamente da pendant un rapporto sociale di dipendenza delle persone da altre persone, le quali, attraverso la riproducibilità tecnica della propria immagine, voce e presenza, indicano alle prime (tramite segni e simboli del capitale[8]) tempi e modi del rapporto che dovrebbero intrattenere con beni e servizi (cioè merci).
Ecco che il capitalismo assume un volto umano, quello dei nostri modelli. Questi ci appaiono belli e importanti: l’accoppiamento di bellezza e successo connota tutti i modelli, determinando una ricezione estetica generalmente favorevole del ricco e gettando i semi dell’aporofobia.
Con il conformismo ai modelli prende piede la massificazione, che è diretta a negare il sentimento di alienazione perlomeno dal genere umano[9], creando una società di persone uniformate e, dunque, prima di tutto riconoscibili e rassicuranti l’una per l’altra (qui si gettano di nuovo i semi dell’aporofobia, ma, più in generale, della paura del deviante). Questa omogeneizzazione offusca la percezione delle disparità di classe e impedisce la formazione di una coscienza di classe e, pertanto, di una classe.
La massa è la somma degli individui alienati primariamente dal genere umano e quindi l’uno dall’altro, senza che essi abbiano coscienza di questa separazione[10]. Gli individui che compongono la massa hanno introiettato i modelli più disparati: questi ultimi, pur molteplici, sono dotati ciascuno di una pretesa alla legittimazione universale, come il medium sul quale di volta in volta appaiono è dotato di una pretesa alla comunicazione universale.
La massa riproduce nel suo seno la contrapposizione fra i modelli (e lo scontro tra le loro rispettive pretese universalistiche) nei momenti pubblici di rilevanza mediatico-connettiva, che cioè tramite i media riuniscono i singoli in quanto massa stessa: il derby di calcio, il televoto al festival di Sanremo, lo scandalo riguardante una celebrità dichiaratamente progressista tacciata di una qualche condotta incompatibile con il suo credo. In questi momenti si genera una comunicazione tesa a intervenire sui valori-segno e sul capitale simbolico di cui sono titolari specifiche entità onde rideterminarlo.
Per esempio, lo scandalo del pandoro ha fatto perdere alla Ferragni un po’ di followers e dunque indebolito il suo capitale simbolico, la cui potenza – intesa come capacità – risiede primariamente nell’attrarre l’attenzione del pubblico dell’infosfera. Nel derby le contumelie che le opposte tifoserie si rivolgono vicendevolmente sono dirette a screditare la squadra avversaria, a ridurre i valori-segno di cui essa si è ammantata (che si tratti dell’acquisto di una nuova promessa del calcio o della conquista di un trofeo) e dunque la reputazione di cui dovrebbe godere nel sottosistema calcistico. Ancora, la classifica del festival di Sanremo, determinata in buona parte dal televoto, assegna a ciascun artista più o meno capitale simbolico e dunque indica l’attenzione che gli dovrebbe essere riservata – in quanto merce fresca, nuova di zecca – entro il panorama musicale: in definitiva, la fetta di mercato che dovrebbe competergli. Per questo negli anni si sono moltiplicati i riconoscimenti ulteriori, come per esempio quello assegnato dalla sala stampa: l’intento è di creare ulteriore mercato per quanti più artisti.
Tutto questo spettacolo polarizzato (o polarizzazione dello spettacolo) dà l’impressione, o meglio l’illusione, di una società dialettica, che si muove sulla linea sottile di un equilibrio in costante discussione.
In questo scenario ad andare deserti sono i momenti pubblici di rilevanza decisionale-qualitativa, che cioè mettono in dubbio non tanto la distribuzione di risorse e prodotti quanto la stessa opportunità del modo di produzione capitalistico e dei fondamenti della proprietà privata e del lavoro salariato: ciò rivela tutta l’inconsistenza della massa, che, spente le luci dello spettacolo, si sgretola negli individui alienati l’uno dall’altro di cui si compone.
L’isolamento e la solitudine si spalancano tutt’intorno e la sola àncora di salvezza è proseguire la comunicazione (e dunque lo scambio di simboli e segni) con i modelli. Come altro spiegare i box dedicati alle domande dei propri seguaci che gli influencer di tanto in tanto pubblicano nelle storie di Instagram? O gli ascolti registrati dai podcast in cui sono ospitate delle celebrità? O – tornando al festival di Sanremo – il Fantasanremo, gioco on line i cui partecipanti scelgono una rosa di cantanti e si vedono assegnare i punti (anche) in base ai gesti e alle azioni di ciascun cantante (per esempio, se indossa gli occhiali da sole o se batte il cinque ai conduttori o se regala fiori all’orchestra)?
Alla base del Fantasanremo è la smania del pubblico perché i suoi cantanti preferiti continuino a parlare (tramite segni non linguistici), a produrre significati al di là dell’esibizione canora: così i creatori del gioco, con una decisione arbitraria, hanno individuato determinati gesti, posture e azioni e assegnato a essi un significato universale: quest’ultimo è infatti immediatamente comprensibile in quanto espresso in punti, cioè in valore. I partecipanti al gioco si sfidano dunque ad accumulare un punteggio (valore) e i cantanti da loro prescelti sono i mediatori di questa corsa alla tesaurizzazione; così, per partecipare al gioco si acconsente espressamente a lasciarsi popolare l’immaginario dai cantanti-modelli e dalla loro gestualità.
La funzione ultima del Fantasanremo non è allora altro che quella di accrescere il capitale simbolico, cioè la capacità di attrarre attenzione, del cantante-modello nella misura in cui questi ponga in essere quei comportamenti che fanno maturare punti ai concorrenti. Costoro seguiranno con il fiato sospeso qualunque suo gesto, che potrebbe fruttare loro punti e magari la vittoria: è così che il cantante-modello rafforza la sua posizione nell’immaginario collettivo.
I comportamenti rilevanti ai fini del gioco non hanno altro significato se non il valore stabilito dalle sue regole: il linguaggio (non verbale) si esaurisce così nella produzione di valore.
La parola, da parte sua, anche quando non produce direttamente valore, può interferire con la sua produzione: così è tutte le volte in cui indica questa o quell’altra merce oppure manifesta questa o quell’altra opinione. L’opinione, a sua volta, indica merci[11] in quanto si inscriva in una comunicazione relativa ai valori-segno volta a rinegoziarne la portata. Così è quando l’opinione si riferisce, come abbiamo visto prima, alla credibilità di un’influencer, alla squadra di calcio avversaria, all’artista preferito in gara a Sanremo: in tutti questi casi è in ballo il capitale simbolico delle entità citate e dunque la loro capacità di attirare attenzione e così generare nuove fette di mercato (in definitiva, di vendere merci).
Ma l’opinione si riferisce alle merci pure quando crediamo, tramite essa, di fare politica: quando si sposa l’opinione di un politico, si aderisce a un insieme di credenze che intendono configurare in uno specifico modo il mercato e cioè l’allocazione delle risorse tra gli esseri umani e il ruolo assegnato in questo mega-meccanismo allo Stato; si tratta dunque di credenze relative all’assetto dei rapporti sociali tra noi e le merci. Per esempio, l’opinione secondo cui la sanità andrebbe privatizzata esprime la credenza per la quale essa andrebbe inclusa tra le merci, così da porre gli esseri umani in un rapporto di dipendenza, e praticamente di subordinazione, se non di ricatto, rispetto alle cure di cui hanno bisogno; di contro, la lotta dei No TAV esprime la convinzione che il paesaggio e l’ambiente andrebbero tenuti alla larga da questi rapporti; ancora, la decisione di optare per la flat tax esprime l’intendimento di rinsaldare i rapporti sociali tra merci e persone accrescendo la dipendenza di queste ultime (meno soldi per lo Stato significano servizi pubblici da privatizzare, mentre più soldi in tasca al grande capitale significano il suo potere di compiere le acquisizioni dei beni pubblici da dismettere e mercificare). Da ultimo, l’opzione per il riarmo europeo pone gli essere umani alla mercé della guerra, quale rimodulazione della politica economica globale o regionale al servizio degli interessi di specifiche oligarchie, e allarga i rapporti sociali tra esseri umani e merci, includendovi nuove merci (la corsa degli Stati al riarmo implica un aggravio per le finanze pubbliche e lascia presagire mercificazioni sotto forma di privatizzazioni dei beni pubblici).
La massa sta allo spettacolo come la classe alla politica. Proprio lo smarrimento della coscienza di classe e la dissoluzione della politica quale momento di alienazione, cioè di oggettivazione di questa coscienza nel mondo (momento prodromico alla lotta di classe), ha permesso al linguaggio e ai ritmi dello spettacolo di contaminare la politica.
Quest’ultima viene oggi condotta come lo spettacolo: le opinioni dei politici vengono acquistate come le merci sponsorizzate sui social media – per compulsione (secondo il meccanismo psicopolitico della subitanea reazione collettiva alle dichiarazioni pubbliche) e distrazione (per cui nella farandola delle opinioni dei politici prevale quella tale da suscitare una maggiore impressione percettiva) – e la stessa prosecuzione dello spettacolo impedisce la realizzazione del mutamento qualitativo. Il mantra “senza bipolarismo non c’è governabilità e senza governabilità si dà l’anarchia” è stato assunto dalle classi dominanti come giustificazione ultima dello spettacolo, della contrapposizione tra fazioni (come tra democratici e repubblicani negli U.S.A.) che mantiene inalterato lo status quo.
Dunque, anche la politica è stata separata dalle masse, che, non avendo più una coscienza della propria comune condizione di subalternità, rimangono ai margini dell’agone politico e assistono a decisioni e iniziative delle sfere del potere come un pubblico di spettatori, cui i media ha consentito di familiarizzare con i politici fino a condividerne non solo i piani e i programmi socio-economici, ma anche gli orizzonti etici[12]. Questa immedesimazione nei politici è analoga a quella che avviene con riferimento ai modelli della sfera dello spettacolo e costituisce la compensazione, tutta psicologica, della separazione delle masse dal potere.
[1] Sul semiocapitalismo, cioè sul linguaggio – composto prevalentemente di segni non linguistici – che il capitale ha incarnato e veicola sull’infosfera e sui social media al fine di alimentare il desiderio e, tramite questo, i consumi, v. i lavori di Franco Bifo Berardi e, in particolare, Disertate, Timeo, 2023, pp. 139-146; 222-231. A ogni modo, l’apparato semiocapitalista pervade anche il lato della produzione, come nota, otre a Bifo, anche Christian Marazzi in Capitale & linguaggio. Dalla New Economy all’economia di guerra, DeriveApprodi, 2002, pagg. 38 – 49, secondo cui il semiocapitale si è formato nella misura in cui si sono messi al lavoro il linguaggio e l’agire comunicativo-relazionale, così che si lavora sempre più comunicando e cooperando linguisticamente (questo stato di cose è emblematico del lavoro cognitivo o “cognitariato”): la catena produttiva diventa allora “linguistica”, nel senso che la produzione risponde alla domanda, a sua volta interpellata dai messaggi provenienti dall’infosfera. Entro questo scenario, il limite dell’offerta sta nelle forze linguistiche della comunità, mentre quello della domanda risiede nella capacità di attenzione della medesima (tutta rivolta all’infosfera): questi punti di rottura indicano come l’intera catena comunicativo-produttiva tenda all’esaurimento delle energie più profonde dell’essere umano.
[2] Sono i modelli induttori o moduli fissi di cui parla Günther Anders in L’uomo è antiquato, vol. I, Bollati Boringhieri, 2023 (ed. originale 2003), parte seconda, in particolare pagg. 157-161: il filosofo osserva come il consumatore “in questo mondo non vede altro che ciò che i moduli fissi gli hanno insegnato a vedere”.
[3] Come nota Günther Anders in L’uomo è antiquato, cit., pag. 109, idealistico “è ogni atteggiamento che trasforma il mondo in qualche cosa di mio, di nostro, in qualche cosa di disponibile”, come quell’ente che appare a nostro piacimento oltre lo schermo dello smartphone e si rende prontamente consultabile e facilmente espellibile.
[4] Pensate alle app per investire on line, che permettono di conoscere i prezzi di miriadi di titoli e monitorarne l’andamento, ma non mettono a conoscenza delle operazioni speculative, quasi sempre orchestrate dai grandi fondi finanziari, retrostanti questi valori e le loro oscillazioni.
[5] Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, 2010 (ed. originale 1966), pag. 46.
[6] Segni (per esempio, un naso rifatto all’insù) e simboli (per esempio, il basco del Che) esprimono un valore-segno nella misura in cui indichino (e quindi siano segno del)lo status della possessore e così situino quest’ultimo in una certa posizione in seno alla società, come teorizzato da Jean Baudrillard ne Il sistema degli oggetti, Bompiani, 2003 (ed. originale 1968).
[7] Per Marx il feticismo delle merci si manifesta nel rapporto tra l’essere umano e le merci, che appaiono come figure indipendenti e dotate di vita propria: esse sono capaci di esercitare un potere reale, una dominazione concreta, soffocando le relazioni sociali a vantaggio dello scambio funzionale alla produzione di esse medesime e all’accumulazione di denaro (v. Marcello Musto, Rivisitando la concezione dell’alienazione in Marx, in Studi filosofici, 2010, pag. 132-134).
[8] In questo caso, segni e simboli che si risolvono in inviti o offerte all’acquisto o al consumo ovvero in dichiarazioni o proclami di proprietà o possesso: questi ultimi equivalgono a inviti o offerte del primo tipo, almeno nella misura in cui gettano un guanto di sfida o lanciano una provocazione a chi li recepisce.
[9] Marx parla di alienazione dal genere umano nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, con ciò intendendo che nel lavoro “la «essenza specifica dell’uomo» è trasformata in «un’essenza a lui estranea»” (così Marcello Musto, Rivisitando la concezione dell’alienazione in Marx, cit., pag. 116).
[10] Byung-Chul Han in Nello sciame, Nottetempo, 2023, pagg. 22-25, chiama “sciame” questa massa e nota come gli individui che la compongono non sviluppino “un Noi”, non raggiungano alcun accordo che li metta in marcia verso una direzione precisa.
[11] Sul tema della mercificazione del linguaggio, v. Boris Groys, Post scriptum comunista, Meltemi, 2021, pagg. 54-60, secondo cui “[n]el comunismo sovietico ogni merce diveniva un messaggio ideologicamente rilevante, come nel capitalismo ogni messaggio diviene una merce”: in quest’ultimo – nota Groys – il linguaggio è impotente perché con gli eventi economici non si può ragionare, essendo possibile soltanto adattarsi a essi; l’agire umano riceve sanzione non linguistica ma economica, espressa tramite cifre anziché a parole. Anche Christopher Lasch, Contro la cultura di massa, elèuthera, 2022, pagg. 68-75, rileva come le idee si siano ridotte a merci e le persone si ritrovino “a scegliere tra opinioni preconfezionate e ideologie progettate e commercializzate da opinion makers”, onde “costruirsi non una vita ma uno «stile di vita»”.
[12] Come nota Franco Bifo Berardi in Pensare dopo Gaza. Saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano, Timeo, 2025, pag. 146 s., “ci troviamo di fronte a una vera e propria inversione del giudizio etico: che gli americani votino Trump proprio perché è uno stupratore e un bugiardo, che gli israeliani appoggino Netanyahu proprio perché pratica il genocidio”; Bifo parla, a questo proposito, di etica brutalista.