“Vietare i social ai ragazzi? Sbagliato: ecco perché”: intervista allo psicoterapeuta Lancini

Professor Lancini, è favorevole o contrario a vietare i social media per i ragazzi al di sotto di una certa età? «Queste sono proposte populiste con cui certi adulti provano a lavarsi la coscienza. Fra l’altro,  mettere in pratica questi divieti è molto complicato, perché servirebbe un supporto tecnico da parte delle stesse società che […]

Apr 24, 2025 - 10:08
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“Vietare i social ai ragazzi? Sbagliato: ecco perché”: intervista allo psicoterapeuta Lancini

Professor Lancini, è favorevole o contrario a vietare i social media per i ragazzi al di sotto di una certa età?
«Queste sono proposte populiste con cui certi adulti provano a lavarsi la coscienza. Fra l’altro,  mettere in pratica questi divieti è molto complicato, perché servirebbe un supporto tecnico da parte delle stesse società che gestiscono le piattaforme». 

È contrario, dunque.
«Lo scorso giugno ho fatto una proposta in audizione al Senato: vietiamo i social network dagli 0 agli 80 anni. Vietiamoli per me, per lei, per il presidente del Consiglio e anche per tutti gli psicologi, psicoterapeuti e pedagogisti che vivono sui social network ma lanciano appelli affinché genitori e insegnanti non facciano usare i social ai minori».

La sua è una provocazione.
«Dobbiamo capire che i social e Internet non sono un oggetto, ma sono la nostra vita. Oggi viviamo in quella che il filosofo Luciano Floridi ha definito società “OnLife”: non c’è più distinzione tra vita reale e vita virtuale. I politici e i capi di governo ormai parlano alla nazione tramite i social, persino il Festival di Sanremo si è rilanciato grazie al Fantasanremo online…».

Quindi?
«Possiamo vietare la droga, le sigarette, l’alcol, ma non Internet, perché Internet è ormai l’ambiente in cui si svolge la nostra vita. Il problema è che c’è una dissociazione: gli adulti propongono un modello di società che vive di social, ma poi sostengono che gli adolescenti soffrono per colpa dei social. Abbiamo genitori che filmano i loro figli continuamente fin dalla nascita – basta andare a una recita dell’asilo per rendersene conto, si chiama “pornografizzazione della società” –, poi però, quando un ragazzo cresce con la fissa dei social, l’adulto si stupisce e vuole vietarglieli… Mi dia retta: saremmo noi a dover chiedere scusa ai ragazzi perché ancora non si fanno prove alla maturità Open Internet».

Obiezione: si presume che un adulto, almeno nella media, abbia una maggior consapevolezza di sé rispetto a un adolescente e sia quindi in grado di fare un uso più responsabile dei social.
«Vero. La soluzione, però, non è vietare i social, ma educare i ragazzi al digitale. Lo stesso discorso potremmo farlo per la sessualità: sarebbe meglio che i ragazzi non facessero sesso fino a una certa età, ma non possiamo certo vietare il sesso; dobbiamo educare alla sessualità».

Che significa educare al digitale?
«Non significa certo insegnare come si usa Internet, ma educare i ragazzi a vivere nella società “OnLife”, società che peraltro hanno creato gli adulti. Educare, però, è faticoso, quindi si preferisce proporre di vietare i social».

Una generazione che cresce a pane e social non rischia di incontrare maggiori difficoltà nelle interazioni sociali di persona?
«Nel mio ultimo libro sostengo proprio che dobbiamo puntare tutto sulla relazione. Ma non sono i social ad aver limitato le relazioni. La caduta della comunità educante ha impedito alle nuove generazioni di crescere come sono cresciuto io, che a 7 anni tornavo a casa da solo da scuola relazionandomi con gente incontrata per strada. Erano gli anni di piombo, la società era molto più pericolosa di oggi, però c’era la cosiddetta comunità educante: l’idea che i figli degli altri contassero quasi come i propri. Oggi invece i genitori accompagnano i figli a scuola fino a 10 anni e magari quando li vanno a prendere aggrediscono l’insegnante, a proposito di relazioni…».

Questo cosa c’entra con i social?
«Internet e una certa una sottocultura televisiva hanno certamente amplificato il tema dell’assenza relazionale e dell’individualismo. Ma continuare a sostenere che i social network e i videogiochi sarebbero la causa di questo isolamento è sbagliato».

I social sono anche una fabbrica di modelli di presunta perfezione ai quali i ragazzi tendono a volersi conformare: pensiamo al boom della chirurgia estetica tra le diciottenni… Così gli adolescenti rischiano di allontanarsi da un percorso di autoconsapevolezza e autoaccettazione. Non è così?
«I modelli di cui lei parla non sono solo sui social, sono ovunque. E anche gli adulti ricorrono alla chirurgia estetica. Internet e i social si sono diffusi all’interno di un contesto sociale nel quale c’erano già un individualismo e una dissociazione adulta che non accetta l’invecchiamento né la bellezza autentica. Il tema dell’anoressia, ad esempio, nasce ben prima dell’avvento dei social. Internet ha contribuito a creare questa società non autentica, ma se continuiamo a pensare che quello che noi vediamo in Rete sia solo lì, mentre fuori c’è un mondo diverso, allora non abbiamo capito proprio niente».

Il problema, insomma, non sta nei social, ma è nella nostra società.
«Anziché interrogarci sul perché abbiamo creato questa società e cosa possiamo fare per modificarla, continuiamo a dare la colpa ai canoni dei social. Questo significa essere dissociati. Se oggi i ragazzi si rifugiano su Internet è perché si sentono soli in mezzo agli adulti».

Ci sono studi che affermano che i social creano dipendenza. Non basterebbe questo a spingerci a preservare la salute di bambini e adolescenti ponendo dei limiti?
«I manuali diagnostici più utilizzati nel mondo – che, pensi, sono già accusati di essere patologizzanti – non rilevano l’esistenza di dipendenza da Internet o da social. Vede, la dipendenza si misura in base alla frequenza di assunzione di una determinata sostanza o al tempo trascorso davanti a un determinato oggetto. Ma – come ho spiegato prima – Internet e i social non sono un oggetto: sono diventati strettamente intrecciati con la vita non virtuale. Quindi ormai non si può misurare la dipendenza da Internet in base al tempo trascorso in Rete. Altrimenti dovremmo stabilire che tutto il mondo è dipendente». 

Andando oltre lo specifico dei social, si dibatte anche sull’opportunità di limitare l’uso degli smartphone per bambini o ragazzi. Si dice: «Se fin dall’infanzia utilizzi motori di ricerca e intelligenza artificiale, il tuo cervello diventerà più pigro». I telefoni possono provocare nei minori un deficit di apprendimento?
«Qualsiasi esperienza nella storia dell’umanità ha modificato il funzionamento del cervello  dell’essere umano. La grande domanda da porsi è: queste trasformazioni di cui lei parla sono davvero qualcosa che porta al deterioramento psichico o sono invece delle forme di adattamento da parte delle nuove generazioni a questa società, ossia una spinta a evolversi? Nessun serio neuroscienziato sa rispondere, si figuri io. Però le do un dato: due lavori su tre di chi oggi entra nella scuola primaria – lo dicono tutti gli economisti – oggi non siamo nemmeno in grado di prevederli. L’unica cosa certa è che bisognerà saper usare Internet e l’intelligenza artificiale».

Quindi?
«Noi adulti dobbiamo aiutare i ragazzi a sentire che hanno un futuro. Molti ragazzi non vogliono più andare a scuola perché lì stanno male: la sentono come un’esperienza non organizzata intorno alle loro esigenze».

Il processo che talvolta facciamo ai social dovremmo farlo agli adulti?
«Il problema è la fragilità adulta. I genitori di oggi ascoltano i propri figli molto più di quanto io fossi ascoltato da mio padre o mio padre da mio nonno. Ma mio nonno non stabiliva nessun patto con i propri figli. Oggi invece i genitori stabiliscono un patto con i figli, ma lo rompono nel momento in cui i ragazzi provano a costruire la propria identità: quando esprimo emozioni disturbanti – come paura, tristezza, rabbia –  i genitori tendono a rimuoverle. E non per proteggere i figli, come sento dire, ma perché li fanno sentire inadeguati. Alla fine, quelle emozioni non legittimate diventano una violenza disperata in pre-adolescenza e adolescenza».

Un comandamento che dovrebbero seguire tutti i genitori oggi nell’educare i propri figli.
«Partire dalla domanda “Chi sei tu?” e stare in silenzio ad ascoltare le emozioni che più disturbano».