Vi spiego il Manifesto di Ventotene (che nessuno ha letto)
Di fronte ad un Manifesto palesemente rivoluzionario, socialista e antitetico al liberalismo di mercato, nonché disinteressato agli Stati Uniti d’Europa, dopo 80 anni sorge la domanda: ma chi lo invoca, lo ha veramente letto? Estratto di un approfondimento di Luca Picotti pubblicato sul Messaggero Veneto

Di fronte ad un Manifesto palesemente rivoluzionario, socialista e antitetico al liberalismo di mercato, nonché disinteressato agli Stati Uniti d’Europa, dopo 80 anni sorge la domanda: ma chi lo invoca, lo ha veramente letto? Estratto di un approfondimento di Luca Picotti pubblicato sul Messaggero Veneto
Nel 1944, ottant’anni fa, Eugenio Colorni pubblicava il Manifesto di Ventotene, redatto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e destinato a divenire in seguito il mito fondativo degli Stati Uniti d’Europa.
La critica del Manifesto è diretta allo Stato-nazione, inteso come apparato di potere, nemico delle masse, che unisce grandi proprietari fondiari, monopoli capitalistici, conglomerati militari-industriali, una macchina gerarchica e diseguale, indicata come responsabile del conflitto. La base di partenza è semplice: «Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani». Da qui, i grandi equivoci e la mitizzazione del Manifesto. Il punto, però, è che «la rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista».
Gli autori, infatti, domandandosi cosa fare una volta che la Germania sarà sconfitta, «nel breve intenso periodo di crisi generale» che seguirà, rifiutano e irridono la risposta democratica, in quanto si illude sui buoni meccanismi delle assemblee costituenti elette con suffragio: queste, sostengono Rossi e Spinelli, non funzionano nelle fasi di transizione («la metodologia democratica sarò un peso morto nella crisi rivoluzionaria»). La rivoluzione dovrà avvenire, invece, tramite un ceto in grado di guidare il popolo, che darà «in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse». Sarà così attraverso «questa dittatura del partito rivoluzionario» che si formerà «il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia».
Emblematiche sono, in tal senso, le misure proposte: «La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso»; ancora, vi è poi il campo delle grandi imprese, «in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti»; i diritti di proprietà e successione, proseguono gli autori, hanno permesso l’accumulo di ingenti ricchezze ad una classe parassitaria e, pertanto, vi dovrà essere una distribuzione «durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario».
Il progetto è informato dall’ideologia collettivista, rivoluzionaria. Si tratta di un vero e proprio programma socialista, antitetico rispetto al processo di integrazione europea che ne è seguito, basato sul funzionalismo economico e sfociato nell’infrastruttura ordoliberale di Maastricht, imperniata sui principi del libero mercato e della concorrenza. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che è corretta l’affermazione per cui l’Unione europea ha tradito lo spirito di Ventotene. Il fatto è che qui non si tratta di mere promesse mancate, bensì di modelli opposti. Ma, soprattutto, coloro che invocano lo spirito di Ventotene, ossia la galassia centrista-liberale che sogna gli Stati Uniti d’Europa, sono quasi sempre i primi a difendere i meccanismi del mercato e il liberalismo, ostracizzando, ad esempio, le istanze “populiste-sovraniste”, ritenute illiberali, stataliste e protezioniste. Il richiamo a Ventotene sarebbe coerente solo se avanzato da movimenti squisitamente collettivisti.
Il secondo profilo che merita di essere evidenziato è proprio il fine del Manifesto. Questo non ha nulla a che vedere con le prospettive di uno Stato federale, ossia i fantomatici Stati Uniti d’Europa. L’Europa unita è solo un mezzo, una premessa, l’artificio retorico per la costruzione di una forza rivoluzionaria che non si limita a progettare nuovi costrutti istituzionali, ma va a delineare mondi-altri. L’interesse degli autori non è di tratteggiare le premesse per il fine dell’Europa federale, polo unito in grado di giocare all’interno di un nuovo equilibrio di potenze. L’obiettivo è un altro: «Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna». Una premessa a cosa? Ad un avvenire in cui «si abbraccino in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità» e «diventi possibile l’unità politica dell’intero globo». Il fine è, marxianamente, il superamento dello Stato e l’unità globale delle classi lavoratrici. La classica utopia comunista, non il disegno di una nuova architettura istituzionale.
È curioso, dunque, che tale Manifesto sia diventato il simbolo dell’europeismo centrista-liberale, specie all’epoca dell’ondata “populista” del 2016. Certo, ogni tanto il messaggio che si ricava da un contenitore finisce per prevalere sul contenitore stesso, assumendo nel tempo nuovi significati. Ci si chiede però se non si poteva trovare un mito fondativo migliore. Ventotene, difatti, può andare bene solo per qualche nostalgico comunista, che spera ancora nel superamento della dimensione oppressivo-statale e nella liberazione dei popoli, a livello globale. Vero internazionalismo, di cui l’Europa unita è mera premessa, mezzo e non fine. Ebbene, di fronte ad un Manifesto palesemente rivoluzionario, socialista e antitetico al liberalismo di mercato, nonché interessato a progetti di liberazione globale, non certo a teorizzare nuove architetture istituzionali come gli Stati Uniti d’Europa, continua dopo ottant’anni a sorgere spontanea la domanda: ma chi lo invoca, lo ha veramente letto?