Vi spieghiamo perché il primo episodio della settima stagione è il manifesto della Black Mirror che conosciamo
Udite, udite! Su Netflix è tornata da un po’ di tempo Black Mirror, e lo ha fatto con un episodio d’apertura che sembra voler ricordare al pubblico, con forza e lucidità, perché questa serie ha segnato un’intera generazione di spettatori. E tale pilot non è solo un inizio, ma una dichiarazione d’intenti. Un’autentica affermazione della… Leggi di più »Vi spieghiamo perché il primo episodio della settima stagione è il manifesto della Black Mirror che conosciamo The post Vi spieghiamo perché il primo episodio della settima stagione è il manifesto della Black Mirror che conosciamo appeared first on Hall of Series.

Udite, udite! Su Netflix è tornata da un po’ di tempo Black Mirror, e lo ha fatto con un episodio d’apertura che sembra voler ricordare al pubblico, con forza e lucidità, perché questa serie ha segnato un’intera generazione di spettatori. E tale pilot non è solo un inizio, ma una dichiarazione d’intenti. Un’autentica affermazione della filosofia blackmirroriana, che ne aggiorna il linguaggio ai tempi che stiamo vivendo. Come da tradizione, anche in Gente Comune la tecnologia non è futuristica in senso classico: non ci sono astronavi, androidi perfetti o viaggi nel tempo.
C’è piuttosto qualcosa di estremamente vicino a noi, già palpabile e a un passo dalla realtà. Ed è proprio questo che fa paura. In quanto, l’illusione che non sia poi così lontano, rende tutto più disturbante. Di fatto, viene qui presa una tecnologia esistente o verosimile, e ne esaspera l’uso quotidiano, mostrando come anche la più salvifica delle innovazioni possa diventare un’arma, un incubo, una prigione mentale.
Molto riuscita è la critica al modo in cui consumiamo contenuti
Come in Joan is Awful della sesta stagione (ecco la classifica degli episodi della stagione 6), anche qui si gioca con la meta-narrazione e con l’idea che la nostra fame di storie, soprattutto di quelle estreme, morbose o voyeuristiche, abbia superato il limite. Lo spettatore si ritrova coinvolto in un meccanismo di empatia e repulsione, oscillando tra il desiderio di sapere cosa succede dopo e la consapevolezza che quello che sta guardando potrebbe benissimo accadere davvero.
In fondo, Black Mirror ci ha sempre costretto a riflettere su quanto siamo complici del mondo che critichiamo. Dopo alcune stagioni più sperimentali, con episodi dai toni diversi e, alle volte, persino ottimisti, quest’ultima pare essere tornata alle origini, attraverso una prima battuta cupo, disturbante, senza redenzione. L’atmosfera è densa, claustrofobica, carica di tensione. Non ci sono vie d’uscita per il protagonista, e nemmeno per lo spettatore, che non riesce a smettere di guardare, nonostante il senso di malessere costante.
Più della tecnologia, il vero fulcro di questa Black Mirror è l’essere umano
Con tutte le sue debolezze, le sue ossessioni, i suoi compromessi morali. Nella vicenda Mike si trova davanti a scelte logoranti, trascinato da una spirale che lui stesso ha contribuito a creare. Pertanto, il progresso non è il mostro ma è lo specchio. E ciò che vediamo riflesso è ciò che siamo diventati, o che potremmo diventare, se non stiamo attenti. Tuttavia, Gente Comune, non ha solo riportato la serie alle sue atmosfere primordiali.
Ma ha anche messo in scena una delle riflessioni più taglienti e contemporanee sull’evoluzione del nostro rapporto con la tecnologia. Al centro della narrazione, non a caso, c’è il senso di inadeguatezza esistenziale che la macchina genera. Ed è qui che Black Mirror compie il suo salto più intelligente. Prende, infatti, il concetto di obsolescenza programmata, tipico della logica di consumo, e lo applica metaforicamente alla condizione umana nel presente tecnologico.
Parliamo di una strategia industriale, secondo cui i prodotti vengono progettati per durare poco, così da costringere i consumatori a sostituirli di continuo. Soltanto che nel pilot, questa logica non riguarda solo smartphone, software o automobili, ma le persone stesse. A questo proposito, Amanda e Mike diventano vittime di un sistema che decide sì di farli sopravvivere, alzando però la posta in gioco di volta in volta. Dunque, iniziano a convivere con l’ansia costante di rimanere indietro, di diventare invisibili, superati, dimenticati.
Il progresso non è più uno strumento per migliorarsi
Piuttosto, si tratta di ma una corsa a ostacoli in cui fermarsi equivale a sparire. E mondo raccontato, non tenersi al passo significa perdere valore sociale, lavorativo, umano. Proprio come un’app che non riceve più aggiornamenti, chi non aderisce ai nuovi standard imposti dalla società-tech è visto come “fuori uso”. Il risultato è un’umanità che non è più padrona di se stessa, in una tensione continua verso una versione di sé più performante, più aggiornata, più utile. E se non riesci a stare al passo, il sistema ti espelle. In silenzio. Come un dispositivo disconnesso.
Ciò che Black Mirror sottolinea con forza, in fondo, è che la tecnologia (qui le serie per appassionati di tecnologia) non è più solo un mezzo. È diventata un criterio di selezione. Un filtro che stabilisce chi è ancora rilevante e chi non lo è più. Questo crea una pressione sociale e psicologica devastante, tanto che, per essere vivi davvero, bisogna restare interfacciabili, connessi, funzionanti. Ma a quale costo? L’esistenza, così, viene svuotata del suo ritmo naturale, dell’imprevisto, dell’errore.
Ogni deviazione dalla norma digitale è come un malfunzionamento da correggere
Tanto che, lo stesso titolo diventa ironico e contemporaneamente profondo. Perché in un mondo in cui tutti cercano di essere unici, aggiornati, rilevanti, cosa succede a chi resta semplicemente… umano? La gente comune diventa invisibile, superflua, sostituibile. È il trionfo, pertanto, dell’invecchiamento dell’identità. Oggi, infatti, pare non esserci più spazio per chi non si sottopone a un progresso che non sa più dove andare, ma che corre comunque.
Ciò detto, facendo il confronto con episodi precedenti in cui si toccava la tematica dell’obsolescenza, asseriamo che Black Mirror lo faceva in modo più diretto e spesso con protagonisti che erano in relazione con dispositivi tecnologici. Basti pensare a Be Right Back, dove si sostituisce un compagno morto con una replica AI, sollevando il tema della sostituibilità affettiva. O in Metalhead (ecco perché l’episodio è criticato) che mostra un mondo in cui gli umani sono ormai prede, superati da macchine efficienti e implacabili. Nel nostro episodio, per l’appunto, il panico dell’arretratezza è interna al personaggio e diventa una vera struttura di vita. Le persone non solo la percepiscono, ma la vivono come un dato oggettivo, inevitabile. E soprattutto, la accettano come naturale.
In Black Mirror 7 sembra che nessuno si opponga allo stato di cose
La società ha interiorizzato il fatto che essere superati è parte integrante dell’esistenza. È un cinismo che suona ancora più reale, perché assomiglia al nostro presente. Per questo, l’ombra della tecnologia non viene spiegata, né mostrata in modo spettacolare. Eppure c’è. Invisibile, come una forza culturale che guida le scelte delle persone. Non serve vedere un algoritmo in azione, poiché ne subiamo gli effetti. Questa assenza di “feticismo tech” (focus sul feticismo in Better Call Saul) è una novità per Black Mirror, che spesso si è divertito a immaginare gadget futuribili. Qui invece si punta tutto su un realismo sociale disturbante, che fa ancora più paura proprio perché non ha bisogno della fantascienza per funzionare.
Infine, possiamo affermare che Gente Comune si distingue anche perché rende questa problematica una questione emotiva e relazionale. Non è solo una perdita di valore economico o funzionale: i personaggi temono di non valere più nulla per gli altri e non avere più un ruolo nel mondo. La sofferenza non nasce dalla macchina, infatti, ma dall’esclusione umana.
Ed è qui che l’episodio colpisce più duro, mostrando come, in una società dominata dal culto della performance, il dolore più grande sia quello di sentirsi irrimediabilmente superflui. Per questo motivo, il pilot di Black Mirror 7 , ci costringe a porci una domanda scomoda. Vogliamo vivere davvero, o vogliamo semplicemente continuare a funzionare? Nel momento in cui la nostra esistenza viene misurata in termini di produttività, iperconnessione e reattività, il rischio non è solo diventare desueti. È smettere di essere persone per diventare sistemi operativi biologici, in eterna revisione.
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