Un gruppo di cittadini etiopi ha denunciato Meta per incitamento all’odio e alla violenza
Su Facebook sono circolati diversi post che incitavano alla violenza in Etiopia. Ora alcuni cittadini hanno denunciato la società Meta per la mancata moderazione.

- I denuncianti vogliono che Facebook modifichi il suo algoritmo e assuma più moderatori.
- La richiesta di risarcimento è di 2,4 miliardi di dollari, per creare un fondo di vittime di violenza online.
- Nel 2021 una causa simile era stata presentata dalla minoranza rohingya del Myanmar.
Due cittadini etiopi hanno denunciato Meta per diffusione di linguaggio d’odio e incitamento alla violenza. La causa da 2,4 miliardi di dollari è stata presentata fuori dal loro paese, in un tribunale del Kenya, che a inizio aprile ha detto di avere giurisdizione sul caso e di poter procedere, nonostante i reclami della società statunitense.
I denuncianti sono il figlio di un professore ucciso nel 2021 dopo la circolazione del suo indirizzo di casa e di minacce nei suoi confronti su Facebook. E un ex lavoratore dell’organizzazione non governativa Amnesty International, che sempre su Facebook ha ricevuto minacce dopo aver firmato alcuni sulle violenze nel Tigray. Non è la prima volta che Meta, e in particolare Facebook, finiscono al centro di una causa giudiziaria per incitamento all’odio. Era successo, per esempio, con i rifugiati rohingya del Myanmar.
La causa contro Meta
Nel novembre 2021 su Facebook hanno iniziato a circolare una serie di post che accusavano Meareg Amare Abrha, professore universitario di Chimica di origine tigrina, di essere vicino al Tigray people’s liberation front (Tplf), contrapposto all’esercito etiope nella guerra civile che tra il 2020 e il 2022 ha causato oltre 500mila morti. Sul social network sono stati pubblicati il suo indirizzo di casa e altre sue informazioni personali, accompagnate da insulti e minacce. E nel giro di pochi giorni il professore è stato ucciso.
Fisseha Tekle, una ricercatrice di Amnesty International, nello stesso periodo ha pubblicato diversi report sulle violazioni dei diritti umani nel Tigray stremato dalla guerra civile. E ha subito insulti e minacce di morte su Facebook. Da quel momento per prudenza non è mai tornata in Etiopia, ma insieme al figlio del professor Meareg Amare Abrha, all’ong Katiba Institute e con il supporto di altre realtà come Amnesty International e Foxglove, nel 2022 ha deciso di fare causa a Meta per incitamento alla violenza e diffusione di linguaggio d’odio.
Quello che i denuncianti vogliono ottenere è che Facebook modifichi il suo algoritmo così che messaggi violenti e pericolosi non trovino più spazio sulla piattaforma. Viene poi richiesta l’assunzione di più moderatori di contenuti in Africa, dopo che gran parte di queste risorse sono state smantellate negli ultimi anni, in particolare dallo scorso gennaio. Infine, nella causa si fa richiesta di un fondo di risarcimento di 2,4 miliardi di dollari per le vittime di odio e violenza incitati su Facebook.
Come i rohingya
Il procedimento è stato depositato in Kenya, dove si trovavano i moderatori di Facebook all’epoca dei fatti. Alcuni documenti interni a Facebook diffusi da Amnesty International dimostrano che c’era consapevolezza che durante la guerra civile in Tigray le cose non stavano funzionando in termini di moderazione dei contenuti online. Non c’era solo un problema di amplificazione dei messaggi d’odio e di violenza, ma anche di tempi molto lunghi per ottenere risposta alle segnalazioni e per la rimozione dei post più pericolosi. E Meta non ha fatto niente per cambiare lo stato delle cose, anzi ha ulteriormente ridotto gli sforzi e le risorse destinati alla moderazione.
Dopo la presentazione della denuncia, la società statunitense ha contestato che i giudici del Kenya possano decidere sul caso, trattandosi di una questione relativa all’Etiopia. A inizio aprile però il tribunale kenyota ha riconosciuto la sua giurisdizione sul caso, respingendo i reclami di vizi procedurali di Meta. Questa decisione “rappresenta un passo avanti verso l’assunzione di responsabilità delle grandi aziende tecnologiche per il loro contributo alle violazioni dei diritti umani. Apre la strada alla giustizia e fa capire alle grandi piattaforme tecnologiche che l’era dell’impunità è finita”, ha sottolineato Mandi Mudarikwa, Head of Strategic Litigation di Amnesty International. Abrham Meareg, figlio del professore ucciso nel 2021, ha detto di essere “grato per la decisione”, aggiungendo che “è vergognoso che Meta sostenga di non dover essere soggetto allo stato di diritto in Kenya. Le vite degli africani contano”.
Non è la prima volta che Meta viene portata in giudizio per questioni simili. Nel 2021 la minoranza rohingya del Myanmar ha fatto causa a Facebook per aver permesso la diffusione di post che incitavano alla violenza dopo che la stessa società, in alcuni documenti interni, avevo ammesso di non aver fatto abbastanza in termini di prevenzione e moderazione. La richiesta di risarcimento, in quel caso, ammontava a 175 miliardi di euro. A inizio 2024 il caso è stato archiviato, ma nei mesi successivi due querelanti hanno presentato ricorso.