The Handmaid’s Tale vs realtà: di chi è oggi lo sguardo che ci osserva?
The Handmaid’s Tale è un romanzo distopico scritto da Margaret Atwood nel 1985, poi divenuto celebre e pluripremiata serie tv. Il nucleo dell’opera è il controllo del corpo femminile, divenuto corpo dello Stato, la soppressione dei diritti individuali e la manipolazione della religione a fini politici. È ambientato a Gilead, società totalitaria sorta dove prima […] L'articolo The Handmaid’s Tale vs realtà: di chi è oggi lo sguardo che ci osserva? proviene da Il Fatto Quotidiano.

The Handmaid’s Tale è un romanzo distopico scritto da Margaret Atwood nel 1985, poi divenuto celebre e pluripremiata serie tv. Il nucleo dell’opera è il controllo del corpo femminile, divenuto corpo dello Stato, la soppressione dei diritti individuali e la manipolazione della religione a fini politici. È ambientato a Gilead, società totalitaria sorta dove prima c’erano gli Stati Uniti, dominata da un regime teocratico che assegna alle donne ruoli fissi: le ancelle, come Offred, vengono usate per la riproduzione in una società in crisi di fertilità.
L’opera è un monito potente contro derive autoritarie mascherate da moralismo. In Gilead, lo Stato esercita una forma estrema di biopolitica (alla Foucault): decide chi può vivere, riprodursi, amare. La sorveglianza è costante, il sesso è ritualizzato, la lingua abolita: è un ordine perfetto, ma disumano. L’opera denuncia come il patriarcato possa sopravvivere anche “legalizzato”, trasformando la maternità in imposizione e il sesso in servizio. Non è una fiction gratuita: è sintesi di eventi realmente accaduti. È un grido contro la normalizzazione dell’oppressione di genere.
Sul piano giuridico, The Handmaid’s Tale rappresenta una distopia costituzionale: lo Stato di diritto è annullato, i diritti fondamentali cancellati e sostituiti da norme religiose arbitrarie. Non esiste distinzione tra morale e diritto, e il diritto positivo diventa strumento totalitario: tutto è legale, anche l’ingiustizia. Il processo penale non è luogo di garanzia, ma strumento di repressione. A Gilead i “processi” sono riti punitivi collettivi, come le Particicutions: esecuzioni pubbliche in cui le ancelle sono forzate a uccidere. La colpa è presunta, la pena è spettacolo, il processo non esiste: non c’è accusa, difesa, terzietà. In termini comparatistici, è una giustizia arcaica, inquisitoria, propria di regimi totalitari o teocrazie penali. Le donne non hanno avvocati, né accesso alla prova o libertà personale. Vengono giudicate secondo norme religiose non scritte, mutevoli e arbitrarie, spesso da comandanti senza contraddittorio. È la fine del giusto processo: niente presunzione di innocenza, legalità violata, potere giudiziario fuso con dogma e governo. Il processo non esiste: esiste solo la pena. Chi dissente – le traditrici di genere, i medici che praticavano aborti – è trattato come nemico dello Stato. È diritto penale del nemico (Jakobs): si punisce ciò che si rappresenta, non ciò che si fa.
I reati sono ideologici e preventivi. Le colpe processate sono spesso sessuali: adulterio, omosessualità, insubordinazione. Il diritto penale reprime la libertà sessuale. La pena – mutilazione, impiccagione, deportazione – è pedagogia di massa. La mutilazione del corpo – il dito tagliato a chi scrive, l’occhio cavato a chi guarda – è il linguaggio del potere che trasforma il corpo in messaggio. Questo orrore non è fittizio. È riscontrabile oggi. In Iran, dopo Mahsa Amini, processi-lampo e condanne a morte colpiscono giovani donne per “propaganda contro Dio”. In Afghanistan, le donne non possono più testimoniare, agire, difendersi. A El Salvador, l’aborto è equiparato a omicidio: le donne sono condannate a 30 anni, spesso senza contraddittorio, con inversione dell’onere della prova. Negli Usa, dopo la sentenza Dobbs v. Jackson (2022), in molti Stati il diritto penale è usato per sorvegliare e incriminare la condotta riproduttiva: medici, accompagnatori e donne vengono perseguiti. È un diritto penale morale, apparentemente laico ma teologicamente fondato.
In Ungheria e Polonia, si punisce per ciò che si è, non per ciò che si fa: la Corte costituzionale polacca ha vietato l’aborto anche in caso di malformazione del feto. La Corte europea dei diritti dell’Uomo, con Reczkowicz c. Poland (2021), ha sancito la violazione dell’art. 6 Cedu per assenza di indipendenza dei giudici. Ma la deriva continua: i magistrati che applicano il diritto europeo vengono sanzionati. In Ungheria, si invocano i “valori cristiani” per limitare diritti Lgbtq+, e il diritto penale diventa rituale identitario. In Italia tutto questo sembra distante, ma i segnali esistono. Nei casi ad alto impatto mediatico – Avetrana, Pamela Mastropietro – il corpo femminile è al centro della scena giudiziaria e mediatica, oggetto di valutazione morale più che giuridica. Il processo penale diventa spettacolo, i media invadono l’istruttoria, i social emettono sentenze. La donna è giudicata per la sua vita, non per un fatto.
Anche nella repressione della violenza di genere, il processo penale può generare vittimizzazione secondaria: perizie intrusive, domande suggestive, stereotipi sessisti minano la neutralità del giudizio. Il processo rischia di trasformarsi da spazio di garanzia a strumento disciplinare. L’Italia è formalmente garantista, ma crescono norme simboliche e “reati d’allarme” che rispondono a una pulsione identitaria più che a reali esigenze di prevenzione: raptus camuffati da delitti d’onore, norme sulla genitorialità, spinta emergenziale. Il corpo della donna non è mutilato, ma può essere giudicato, sorvegliato, esibito. Quando il corpo è più rilevante della prova, e la norma penale serve a costruire identità più che a limitare il potere, siamo già vicini a Gilead. Non serve una teocrazia. Bastano indifferenza, abitudine, legittimazione del simbolico.
La domanda è: di chi è oggi lo sguardo che ci osserva? È lo sguardo del potere che disciplina, del sistema che teme il dissenso, di chi invoca sicurezza per cancellare libertà. La risposta può venire solo dal diritto – ma da un diritto vivo, critico, vigile. È il compito di noi giuristi: difendere il processo come spazio di verità e garanzia, non di obbedienza. Perché ogni volta che accettiamo di sacrificare una libertà, ci avviciniamo a Gilead. E nemmeno ce ne accorgiamo. Sotto il suo Occhio.
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