Strage di Monreale, la lettera degli arcivescovi che parla a tutti
Massi C’era il cardinale che citava in latino Tito Livio e dal pulpito parlava della Sagunto espugnata (che poi era Palermo),...

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C’era il cardinale che citava in latino Tito Livio e dal pulpito parlava della Sagunto espugnata (che poi era Palermo), mentre a Roma si discuteva (a vuoto). Era il giorno dei funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa e l’arcivescovo del capoluogo siciliano, Salvatore Pappalardo, anche davanti agli uomini dello Stato si scagliava contro la mafia e contro chi aveva lasciato il generale da solo. Negli anni successivi sempre in chiesa dopo la sua omelia le lacrime di Rosaria Schifani, moglie dell’agente di scorta ucciso nella strage di Capaci assieme ad altri due colleghi con Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, e il cardinale avrebbe di nuovo puntato l’indice contro Cosa Nostra al funerale di don Pino Puglisi. Ieri gli arcivescovi di Monreale e Palermo – monsignor Gualtiero Isacchi e monsignor Corrado Lorefice – hanno scritto una lettera aperta dopo la strage di Monreale. Non una strage mafiosa, ma altrettanto allarmante perché sono morti tre giovani, altri sono rimasti feriti per mano (e per la pistola) di un coetaneo.
La lettera parte dalla necessità di non dimenticare troppo presto né la violenza né il dolore. Perché la memoria non è solo una nobile virtù ma essenza stessa della nostra esistenza. Ma accanto alla memoria e alla necessità di ricordare, c’è anche la speranza. Che non può essere soltanto consolazione all’abbattimento, ma è invece humus per rendere fertile il futuro umano. Umano, un aggettivo (e non solo) che dovrebbe essere invece la bussola per evitare i rischi di un post umanesimo che "supera la natura umana per negare l’umano". Non bisogna cedere al pessimismo e gli arcivescovi ricorrono a papa Francesco che si raccomandò di non utilizzare più frasi come "I giovani sono chiusi" e "Ormai tutto è perduto". Frasi che – a proposito di memoria – riportano a quella terribile estate del 1992. Anche Antonino Caponnetto, ex capo dell’Ufficio Istruzione e papà del pool antimafia, si fece prendere dallo sconforto e disse "è finito tutto". Salvo poi ricredersi. Perché trentatré anni fa furono proprio i giovani ad appendere le prime lenzuola alle finestre contro i boss, a organizzare le prime manifestazioni, ad associarsi, a cambiare umanamente una città in cui la parola mafia non veniva nemmeno pronunciata. Mai smettere di credere nel genere umano. Anche negli abissi, come ora. E la lettera dei due arcivescovi può essere la molla per far scattare qualcosa.