Solo il 3% delle grandi aziende agisce davvero contro la deforestazione. E la Terra paga il conto
Il tempo delle promesse è scaduto. A pochi anni dalla scadenza, fissata da oltre 100 leader nel corso della COP26 a Glasgow, per fermare la deforestazione entro il 2030, il nuovo rapporto Forest 500 2025 pubblicato da Global Canopy lancia un allarme inequivocabile: un terzo delle aziende più potenti al mondo continua a non fare...

Il tempo delle promesse è scaduto. A pochi anni dalla scadenza, fissata da oltre 100 leader nel corso della COP26 a Glasgow, per fermare la deforestazione entro il 2030, il nuovo rapporto Forest 500 2025 pubblicato da Global Canopy lancia un allarme inequivocabile: un terzo delle aziende più potenti al mondo continua a non fare nulla per contrastare il declino dei polmoni verdi del Pianeta. Il 34% – pari a 168 compagnie su 500 analizzate – non ha preso alcun impegno pubblico per rimuovere la deforestazione dalle proprie catene di approvvigionamento. Di queste, 24 sono state classificate come “persistent laggards”: da oltre 11 anni non hanno mostrato il minimo progresso.
Le implicazioni di questo approccio sono ormai note, e devastanti. Le foreste non sono solo polmoni verdi: regolano il clima, proteggono la biodiversità, forniscono mezzi di sussistenza a oltre un miliardo di persone. Eppure, ogni anno milioni di ettari vengono polverizzati a causa della produzione di carne bovina, olio di palma, soia, cacao, carta e gomma – le cosiddette forest risk commodities. Da sole, queste materie prime sono responsabili di quasi il 60% della deforestazione globale.
Chi guida e chi frena: la mappa della (in)azione
Il report classifica le aziende in tre categorie:
- Leader (3%): aziende come Flora Food Group, Unicharm e Adecoagro, che hanno impegni solidi e dimostrano di attuarli su tutte le commodity.
- Late majority (63%): aziende con impegni parziali o deboli. Scelgono spesso materie prime più “visibili” mediaticamente – come l’olio di palma – tralasciando altre più impattanti come la carne bovina.
- Laggards (34%): completamente prive di impegni, o con politiche inadeguate da oltre un decennio.
Il report, frutto dell’analisi di oltre 300.000 dati, fotografa una realtà in cui solo l’8% delle aziende dichiara più della metà delle proprie commodity come “deforestation-free”. Solo il 6% ha una politica articolata sui diritti umani, mentre appena il 30% delle aziende di produzione e trasformazione può tracciare i prodotti fino alla fonte.
Oltre il greenwashing: marce indietro e responsabilità omesse
Molte aziende, soprattutto in Nord America, stanno persino rimuovendo impegni presi in passato. Il colosso brasiliano JBS, ad esempio, ha ritirato la promessa di azzerare le emissioni nette entro il 2040. Questo fenomeno di regressione, unito al greenwashing diffuso, mina la credibilità delle strategie ESG e rallenta l’azione collettiva.
Come denuncia Global Canopy: “Mentre le aziende ignorano i crescenti rischi a favore dei profitti a breve termine, si perdono opportunità cruciali per contrastare la deforestazione e le violazioni dei diritti umani ad essa associate”.
Il costo dell’inerzia: clima instabile e crisi economiche
La deforestazione contribuisce all’11% delle emissioni globali di gas serra. La sua persistenza minaccia il superamento di punti di non ritorno ecologici, come il collasso dell’Amazzonia. In assenza di azioni concrete, gli eventi climatici estremi diventeranno sempre più frequenti. Nel solo 2024, negli Stati Uniti si sono registrati 27 disastri climatici con danni superiori al miliardo di dollari ciascuno.
A pagarne il prezzo saranno anche le imprese stesse: raccolti in calo (come nel caso della soia brasiliana), rincari delle materie prime (come cacao e caffè) e perdite economiche fino al 26% del valore per le aziende agroalimentari entro il 2030.
Il paradosso della finanza: chi inquina viene ancora premiato
Il Forest 500 Report 2025 punta il dito anche sul settore finanziario. Solo il 3% degli investitori e delle banche valutati ha adottato politiche solide contro la deforestazione in tutti i settori critici. In molti casi, gli istituti continuano a finanziare aziende senza alcun impegno ambientale, contribuendo indirettamente alla distruzione delle foreste. “Questo tipo di investimento – si legge nel report – non è solo un rischio ambientale, ma anche un rischio finanziario sistemico”.
L’Agenda 2030 e il tempo che stringe
Senza una svolta immediata, gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile sono destinati a fallire. La conservazione delle foreste è centrale per almeno sette dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), inclusi quelli su clima, acqua, biodiversità, lavoro dignitoso e consumo responsabile.
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