Si può eliminare del tutto la paura?
La paura ha una funzione anche produttiva, in senso antropologico-politico. Certo, non la paura indeterminata e parossistica, che genera ossessioni e paranoia. Ma siamo sicuri che il riso, o la scienza, […]

La paura ha una funzione anche produttiva, in senso antropologico-politico. Certo, non la paura indeterminata e parossistica, che genera ossessioni e paranoia. Ma siamo sicuri che il riso, o la scienza, ce ne possano liberare? Indubbiamente, superstizioni e fobie devono essere rischiarate, analizzate, smontate per quanto possibile. Ma è la condizione umana in quanto tale che è segnata dalla paura (innanzitutto, della morte) e in qualche modo la implica anche in funzione autoprotettiva. La paura, così come il senso del finito, ci rende umani. Demolite le superstizioni, la condizione umana è un Eden irenico? No.
Una cosa è usare la ragione per capire, e il riso per criticare, altra cosa è demolire tutto, anche il senso della realtà, disgregare e polverizzare, perché non resta nient’altro che il nulla (mediocre, senza abissi). La perdita di tale consapevolezza può condurre effettivamente a una deriva anticristica: questa è la piccola vendetta di Jorge da Burgos (personaggio immaginario, ma realistico, posto da Umberto Eco al centro del suo fortunato romanzo Il nome della rosa). Che aveva torto, allora. Ma forse oggi avrebbe ragione. Di fronte al transumano, al disancoraggio da ogni radice (personale e collettiva), al nichilismo tecno-finanziario, al degrado estetico-politico, alla legittimazione della discriminazione inumano-umanitaria e allo sdoganamento della guerra totale, la deriva anticristica non può più essere ignorata. Così come la mistificazione della razionalità, allora giustamente rivendicata da Gugliemo da Baskerville, oggi ridotta a fanatismo scientista e moralista, o il traviamento della funzione liberatoria del riso, ridotto nell’immaginario globalista a viatico di una destrutturazione omologante e antiestetica, cioè del conformismo perbenista dei finti radicali.
Il limite alla dissacrazione è il sacro stesso portato sulla terra, secolarizzato, la sua trascendenza immanente che serve a generare quelle risorse di senso che consentono di pensare profondamente e di comprendere/creare la bellezza, il bene. Sconsacrare può esaltare e inorgoglire, ma se ci priva della comprensione delle ragioni antropologiche profonde della domanda di sacro ci appiattisce.
La mediazione non è separata dal negativo.È vero che ogni immediato si rivela a tua volta mediato, cioè risultato di qualcosa. Ma attenzione a una lettura bonificata di Hegel: non tutto è mediazione. Mediazione e decisione si coappartengono, politicamente ma anche speculativamente. La mediazione dialettica è possibile solo a partire da un immediato, che poi si svelerà a sua volta mediato. Ma, nel momento in cui si dà, si pone come immediato ed è efficace perché tale, la produttività dell’immediatezza ai fini della mediazione emerge chiaramente, così come il nesso immediatezza-mediazione (che se pensate come separate sono mere astrazioni), categorie teoretiche che nello spirito pratico (ma il toertetico è pratico, e viceversa) si presentano come decisione-norma, ordine-conflitto, regola-eccezione. Il nomos, che è “misura” situata, ordo, è anch’esso attraversato dal negativo: non a dispetto di ciò, ma perciò è un’approssimazione alla giustizia (nella sfera umana, delle cose penultime, ma in rapporto con le ultime, sporgente su di esse: una sporgenza, o eccedenza, laica, secolare, e tuttavia teologico-politica nella forma della modernità).
La mediazione hegeliana, trascrizione speculativa della coimplicazione trascendenza-immanenza che struttura la modernità (se non intesa in modo unidimensionale), è complessa, media anche se stessa in quanto “data”. Gesù è la forma iconica di quella coimplicazione: Gesù è moderno. Può sembrare un paradosso, considerata la distanza “mitica” che ci separa da lui e la vulgata sulla modernità come epoca della laicizzazione. Lo è, ma a determinate condizioni dialettiche, che ne svelano le contraddizioni produttive e gli ancoraggi alla tradizione (e il suo stesso prodursi come “tradizione nuova”). La modernità prova ad autofondarsi. Ma non è certo anticristiana. Anzi, nel momento in cui mette in opera quel grandioso tentativo, invera un grande lascito filosofico del cristianesimo (“religione dell’uscita dalla religione”, cioè della secolarizzazione stessa, secondo Marcel Gauchet in quel gran bel libro che è Il disincanto del mondo). Del resto, probabilmente è per il suo essere atopos (cioè inagguantabile, come Socrate) che Gesù, questo irregolare provinciale estraneo all’aristocrazia del Tempio (cfr. il volume di Giulio Busi, Gesù, il re ribelle, Mondadori 2023), inviso perché veicola la libertà della vita autentica come manifestazione di profonda fides, è stato il “ponte” per eccellenza tra trascendenza e immanenza, che ha replicato, o inverato, la dialettica mythos–logos universalizzandola storicamente. Solo un oscuro galileo dotato di charisma, un Magister che si contrappone non alla Legge, ma alla sua esteriorità, che guarisce anche il sabato, che si apparta con donne di dubbia moralità (e invita a non giudicarle), poteva riuscirci, rispondendo evidentemente a un bisogno sorto nel seno di comunità rurali marginali della Palestina, ma anche anticipando una domanda che serpeggiava e diventerà nel tempo universale, coinvolgendo tutte le genti e diffondendosi capillarmente anche tra i pagani. Senza “carismatismo”, cioè un’autorità anomala che non si appiattisce sull’immanenza dei poteri costituiti, un’eccedenza imprevedibile che poggia su un movimento reale autenticamente popolare (non importa se all’inizio minoritario), senza il fervore comunitario della credenza che rinnova psyche e polis, non si crea nulla di nuovo, si gestisce (come diceva Max Weber) un “fabbisogno quotidiano” (cioè si fa ordinaria amministrazione “economica”). Buona forse per tempi normali. Non per tempi di scissione che invocano una decisione (krisis), come il nostro, le cui cause vanno scavate nel profondo, perché sono di natura “ultima”. Del resto, il “politico” è “spirituale”. La messa in forma delle sfide antropologiche, che dà vita a svariate forme di ethos le quali rappresentano ciascuna un Intero dai confini ben determinati (cfr. il classico di R.Benedict, Modelli di cultura, Laterza 2010), è tanto la posta in gioco del “politico”, quanto ciò da cui trae linfa.
Oggi, nella profonda crisi di civiltà dell’Occidente, si mostra come l’impossibilità della mediazione autoreferenziale, senza croce, sia una delle ragioni teoriche per cui il globalismo ci ha portati in un vicolo cieco, rivelandosi impossibile e fuorviante. Se il negativo è permanentemente operante nella produzione infinita del finito, lo spirito (oggettivo) rimane politico, non c’è irenismo. La pace universale è possibile solo nella dimensione trans-storica del Regno. Che è, si, nell’annuncio, “qui e ora”, ma è anche sempre “a venire”. La condizione teo-ontologica del cristianesimo delinea, anche dopo l’incarnazione e il sacrificio salvifico di Cristo, la persistenza di un conflitto permanente, fino alla fine dei tempi. Il mondo dei cristiani è una stasis. Quel sacrificio supera infatti la logica sacrificale, dà l’esempio, apre un nuovo tempo, ma è appunto un annuncio, non una pacificazione definitiva. La stessa logica del sacrificio può riproporsi nelle sue forme più primitive (purtroppo ne abbiamo conosciuto esempi tragici, nella nostra storia repubblicana). Cristo indica una strada, salva nel senso che apre una porta verso la salvezza, ma non supera la contrapposizione tra le due città, e la loro implicazione nell’ambiguità. Per questo la storia umana, anche dopo l’umanizzazione di Dio, che eleva l’uomo, continua ad essere segnata dall’ambivalenza e dal male. Meglio riconoscere tale sfida, per contrastarla e arginarla. Il messianesimo è tanto katechontico quanto apocalittico. Cioè incompiutezza. Anche l’egemonia politica gramsciana in fondo la presuppone. Ma l’Europa globalista e neoliberale, presa dal suo fanatismo moralistico e cinico, che la porta a coltivare “scontri di inciviltà”, guerre definitive in nome del Bene, cioè di un’umanità presuntamente pacificata attraverso l’espulsione da essa dei deumanizzati, ha dimenticato questa lezione sorta nel suo seno mediterraneo e latino. L’esito è l’assuefazione alla carneficina di Gaza, l’accecamento che porta al riarmo generalizzato e non al Welfare, la retorica pelosa che legittima la contrazione della democrazia “in suo nome”.
(Brevi considerazioni in libertà, discutendo con Roberto Giordi, dopo aver assistito alla nuova opera Il nome della rosa, commissionata dalla Scala a Francesco Filidei. Pensando al Conclave…)