Segnalazioni letterarie
Segnalo alcune opere lette negli ultimi mesi, oserei dire opere di spicco, poiché tutte degne della più profonda risonanza letteraria e filosofica. Sto parlando de Il Dio di Norimberga di […]

Segnalo alcune opere lette negli ultimi mesi, oserei dire opere di spicco, poiché tutte degne della più profonda risonanza letteraria e filosofica. Sto parlando de Il Dio di Norimberga di Alessandro Baldacci (peQuod), La religione della bellezza di Ilaria Giovinazzo (peQuod), Pura Luce, canti mistici del tantrismo, della mistica indiana Lalla, tradotta da Ilaria Giovinazzo (Mimesis, Jouvence), Malizia Christi di Davide Cortese (Croce), Quaderno di statue e di vento di Giorgio Ghiotti con collage di Antonio Veneziani (Croce).
Nell’opera di Baldacci, al centro della scena vi è Kaspar Hauser, e tutto il poemetto si snoda in versi immaginifici in cui il mondo del piccolo Kaspar si allontana e si avvicina, gli umani sono estranei, capaci per lo più di tradire nella mancata comprensione delle diversità, e resta solo il fantasioso amico Sasha ad accompagnare il protagonista in questa successione cinematografica e filosofica di scenari mutevoli, a tratti disturbanti, in una tragedia che non può essere udita da alcuno, né vista, poiché si svolge in un piano di realtà inaccessibile ai più, e quanto di più prossimo è definito alieno. Al termine della nota dell’autore leggiamo: «Le due immagini che appaiono in Guarda Kaspar provengono dal film di François Truffaut, L’Enfant sauvage del 1970, ispirato al rapporto sul “ragazzo dell’Aveyron”, redatto a inizio Ottocento dal medico ed educatore francese Jean Itard. Ed è proprio nel “ragazzo dell’Aveyron”, chiamato Victor, morto a Parigi lo stesso anno in cui Norimberga registra l’arrivo di una sorta di ufo, che in conclusione mi pare sia possibile riconoscere non solo il “vero”, misterioso genitore di Kaspar Hauser, quanto soprattutto il testimone di uno dei più ostinati, drammatici (divini?) sforzi di contrapposizione alla violenza del mondo esterno».
IX.
Kaspar ricorda quella piazza,
con le baccanti in piena vista
a fare festa insieme Sasha,
e lascia andare le ginocchia,
le fa cadere sino a terra
come le vesti, urlando a tutti:
«attenti a voi, vengo da dentro
la testa e sono il dio dei topi».
La religione della Bellezza di Ilaria Giovinazzo è un lavoro profondissimo sul sacro interiore, con una visione corrusca del femminino in quanto fenice e pienezza del vivere, vita in sé, perseveranza nell’abbandono del controllo, nel potere senza potere che si traduce in potenza. Un versificare libero dove la forza suprema s’incarna nella vita frammentaria, abbacinante, disarmante, facendo dell’arte un portale verso il divino impersonale.
Non m’interessa più
soddisfare i desideri del mondo,
voglio avere cura di cos’è preziose.
Lasciatemi andare,
lasciatemi andare tutti,
voglio brillare di solitudine.
Il lavoro di scavo sulla sacralità in Giovinazzo prosegue nella traduzione della mistica indiana Lalla, Pura Luce, «un’asceta rinunciante donna, figura non ortodossa in una tradizione, quella hindū, declinata sostanzialmente al maschile. L’avevo pensata nel suo sfrondarsi, nello spogliarsi graduale di sé lungo il sentiero della rinuncia. Rinuncia a cosa? Agli imperativi mondani, all’”io” e al “mio”, alla cortina fumogena della māyā, alla conoscenza di seconda mano, alla dualità… proprio come un rinunciante maschio, certo. Ma a cos’altro avrebbe dovuto fare esplicito voto di rinuncia una donna asceta, una mistica dell’India tradizionale? Alla protezione, alla tutela e alla signoria legittima di un uomo, alla sicurezza e all’approvazione derivanti dall’esercizio delle funzioni e dei ruoli a lei da altri assegnati.» con queste parole Ilaria descrive la mistica Lalla, di cui riporto un aforisma.
Cercai me stessa, invano.
Nessuno fece mai così tanti sforzi per raggiungere il Sé.
Poi guardai dentro di me e trovai la fonte di nettare puro, vasi e vasi di nettare purissimo, e nessuno che lo bevesse.
È intriso di una luce mistica e infera anche il romanzo del poeta Davide Cortese, Malizia Christi: storia fantastica dell’enfant prodige, signor Babelsberg, che a soli cinque anni gode già di larghissima fama per la sua autobiografia, scritta a tre anni, intitolata Io sono Adam. Il signor Babelsberg vive da solo in un grande palazzo stregonesco, ma si circonda di strambi e surreali amici da film di Tim Burton: il pittore Adrian Malick, la marchesa Yvonne de Saint Jacques con i suoi figli gemelli, il poeta Donando Marradi, di cento anni, e l’amata attrice Maeva Westwood, diva del muto di cui il signor Babelsberg è irrimediabilmente innamorato. È un romanzo surreale e straniante, ironicamente citazionistico: Marradi è una chiara allusione all’immenso Dino Campana. Tra riferimenti a Borges e a Buzzati, ci aggiriamo per i luoghi incantati descritti da Cortese, fronteggiando personaggi appartenenti al regno dell’assoluto altrove. Scrive Renzo Paris in prefazione: «Compare un poeta centenario che ha una biblioteca enorme, di cui si serve Adam, con una lunga lista di libri inesistenti. Bisogna aggiungere il pittore degli ombelichi, che dipingerà anche quello del protagonista. Il pittore sostiene che il primo uomo, Adamo, non può avere l’ombelico perché non è nato da una donna con il suo cordone ombelicale e dunque anche Michelangelo si sbagliava. Sullo sfondo ci sono: un conte Marsicano, un orso di pezza che convive con una marchesa, una coppia di gemelli e il ventriloquo più famoso della cittadina inglese di Debrama, nel cui grigiore si muovono cerimoniosi».
Leggendo questa fiaba ho pensato anche al Baricco di Oceanomare, e a come la brillante e sfolgorate potenza immaginativa di Cortese, riesca a scrivere in prosa con la stessa tenera e sacrilega leggiadria con cui è solito cimentarsi in poemi, da me molto amati, come Zebù bambino (Foglie d’ulivi), una baluginante silloge – o poemetto – sull’infanzia del diavolo, sempre approcciata con l’ironia propria di Davide Cortese. In Malizia Christi però Davide Cortese raggiunge il punto più alto del suo neosurrelismo.
Donando Marradi, fumando nel buio il trinciato di silenzi della sua pipa, come sé questa fosse un calumet della pace e lui un vecchio pellerossa stanco, pensò al mazzo di tulipani che Teo e Timo avevano portato per la bella Maeva, senza tuttavia poterglielo dare, visto che lei se ne era andata via prima del loro arrivo. Si chiese che fine avessero fatto quei tulipani.
Un altro libro edito da Fabio Croce, che ho particolarmente amato, è Quaderno di statue e di vento di Giorgio Ghiotti, impreziosito dai coloratissimi collage di Antonio Veneziani – che è difficile descrivere, vanno visti! – e da una postfazione di Yasmina Pani. Possiamo considerare Giorgio Ghiotti uno dei maggiori eredi della scuola romana. Il versificare limpidissimo e metricamente perfetto rimanda alle atmosfere dei luoghi che ci abitano e delle amicizie profonde, fondative della nostra identità, come quella tra i due poeti coautori di questo libro, Giorgio Ghiotti e Antonio Veneziani, così come quella tra Giorgio Ghiotti e Renzo Paris, o con Gabriele Galloni, cui è dedicata questa splendida poesia:
Leggendo Il Corsaro, a Gabriele
Le poesie, stanotte,
sono progetti esistenziali.
I vecchi rimedi contro l’insonnia
non funzionano più. È chiusa,
dunque, l’incarnata stagione dei riti?
Sfoglio, al lume dei suoi
misteri, Il Corsaro di Poe:
«Quando noi avevamo sedici
anni, e ci giuravamo amicizia».
Mio incauto desiderio, riportarmelo
vicino; avessi saputo che a caro
prezzo si para quel minimo di
verità in tanta finzione…
«A settembre il mare pare sia un incanto. Le spiagge si svuotano, l’aria si raffredda e la stagione, ancora capace di dolcezze, ha l’allegria struggente di un congedo estivo. Pare.
Lo scorso settembre ho passato una settimana a Sabaudia, ai piedi del Circeo, in cerca di ristoranti e caffè dove ripararmi da temporali continui e da un vento furibondo. Il mare era inavvicinabile, ma con Leonardo, il mio compagno, abbiamo camminato – nei momenti di tregua dal maltempo – tutt’intorno al lago di Paola, traversato dal ponte che collega la città alle dune della spiaggia, deserte in quei giorni. Dirimpetto al millenario (si direbbe per magia e «profondissima quiete») santuario della Sorresca, si affacciano in lontananza ville nascoste tra la vegetazione e si godono impagabili tramonti. In quella settimana ci siamo incontrati con Antonio Veneziani, che vive poco lontano da lì, a Sezze, nell’entroterra. Abbiamo guidato di sera in una costante minaccia di tempesta, sfidando i tornanti strettissimi che portano alla parte antica della città, quella medievale; avrei detto ad Antonio: «Raggiungerti quassù è come fare un pellegrinaggio a una città santa, e tu ne sei la Madonna» scrive Ghiotti nell’avvertenza all’inizio della silloge.
Leggendo Giorgio Ghiotti penso alla scena finale di un film di Truffaut intitolato Baci rubati in cui giunge un uomo che dice Io sono definitivo. Si attende il definitivo, come un’identità che sia in realtà qualcosa di esteriore. L’attesa qui è squarciata dalla compresenza dell’amicizia e del viaggio. Il viaggio è forse un abbandono momentaneo della presenza. Abolire ogni forma di potere è cedere al dominio della melanconia? Forse l’umiltà è sentirsi in un flusso comune, seppur personale. Una ricerca dei luoghi, non smettendo mai di tener conto del prossimo, prestando attenzione a ciò che sfugge, eccedendo la logica dell’abitudine. L’amicizia è un ritrovamento, il viaggio è una sospensione che riconduce nell’attimo.