Quanti gap in busta paga

In Italia i salari rimangono troppo bassi, con forti disuguaglianze legate al genere, all’età, ai contratti collettivi, ai settori e al territorio: un gap dopo l'altro, si erode il potere di acquisto, come dimostra l'analisi di JobPricing L'articolo Quanti gap in busta paga proviene da Economy Magazine.

Apr 22, 2025 - 16:00
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Quanti gap in busta paga

C’è il gender pay gap e il gap generazionale, quello tra i vari contratti collettivi e quello tra i diversi settori, il gap territoriale e quello del welfare. E c’è persino il gap dovuto allo smart working, nelle nostre buste paga. Che sono – sempre e comunque – troppo leggere: in Italia, l’80% delle persone riceve una retribuzione lorda di meno di 35mila euro, il 92% non supera i 40mila e i più pagati del mercato (9° decile Ceo) nel 2024 si sono messi in tasca circa 9 volte i meno pagati (1° decile Operai). I dati sono quelli del Salary Outlook 2025 dell’Osservatorio JobPricing, che Economy ha potuto consultare in anteprima e che vede il Belpaese al 22° posto su 34 Paesi Ocse per salari medi annui, scivolato (verso il basso) di una posizione rispetto allo scorso anno, con un salario medio annuo dell’Italia (48.874 dollari), al di sotto di Paesi come Austria, Belgio, Germania, Francia e Spagna, il 16% (in soldoni, 9.358 dollari) in meno rispetto alle media Ocse e il 46% in meno (circa 41mila dollari) di quel che si portano a casa in Lussemburgo. C’è chi sta peggio, direte voi. Certo, ma non così “peggio”: nell’ultimo Paese della classifica Ocse, il Messico, guadagnano 28.400 dollari l’anno meno di noi. 

Ma stiamo parlando di retribuzioni lorde. Perché se guardiamo al netto un busta paga (e ricordiamoci che il cuneo fiscale in Italia è più̀ alto del 33% rispetto alla media dei Paesi Ocse), al netto dell’inflazione, il gap del potere di acquisto di fa sentire: «L’Italia, che già aveva avuto un calo nel livello dei salari reali del 2,3% nel 2022, ha registrato un ulteriore calo del 2,76% nel 2023 rispetto al 2022, che la pone al penultimo posto tra i Paesi Ocse», spiega Federico Ferri, Senior Partner & Ceo di JobPricing, «dietro solo all’Irlanda. La questione salariale italiana ha radici profonde: esaminando la dinamica dei salari reali dal 2000 per alcuni Paesi europei, quelli italiani sono addirittura calati negli ultimi 23 anni del 3,3%. La Lituania ha registrato la crescita più elevata, pari al 163% (quasi triplicando il salario reale dal 2000), mentre alcuni Paesi presi come riferimento e spesso paragonati all’Italia, ovvero Francia e Germania, mostrano tassi di crescita rispettivamente del 20,6% e del 14,8%». 

«Negli ultimi tre anni i rinnovi dei principali Ccnl, la pressione dell’aumento dei prezzi di mercato, la netta ripresa dopo il periodo pandemico e un maggior fermento e competizione del mercato del lavoro hanno generato una ripresa della crescita retributiva nel contesto italiano», osserva Matteo Gallina, Responsabile dell’Osservatorio JobPricing. «Questo è di per sé un segnale positivo, nonostante l’andamento dell’inflazione e il confronto con l’estero non ci mettano in una condizione lusinghiera. Tuttavia, la previsione per il 2025, sostenuta da più parti istituzionali, racconta di una dinamica retributiva che non sarà generosa come quella dell’ultimo anno, in cui per la prima volta l’aumento delle retribuzioni ha superato l’aumento dei prezzi al consumo». 

Già, ma perché le aziende abbiano la possibilità di aumentare i salari, bisogna aumentare la produttività del lavoro. E anche in questa classifica, l’Italia ha il suo bel gap: negli ultimi trent’anni la crescita media annua della produttività è stata del 2% negli Stati Uniti, dell’1,5% in Germania, dell’1% in Spagna e solo dello 0,65% in Italia, anche se il grosso della crescita nel nostro Paese si è realizzato prima dell’anno 2000. Lo scorso anno, comunque, la Ral media è aumentata del 3,3% rispetto al 2023 (e se si considera il 2015, l’aumento è dell’11,0%). In soldoni, la Retribuzione Annua Lorda media nazionale 2024 è di 31.856 euro. La media per i dirigenti è di 106.606 euro, la media dei quadri di 56.746 euro, gli impiegati si attestano in media a 33.358 ed infine gli operai a 27.266 euro. «Di tutti e quattro gli inquadramenti, gli operai sono quelli che hanno registrato il maggiore aumento relativo della Ral non solo nell’ultimo anno, il 4,6%, ma anche se esaminati a partire dal 2015, del 13,9%», conferma Matteo Gallina. Ed è vero che per il 2024 si registra un recupero del potere di acquisto dei salari (+3,3% vs +1,0% dell’inflazione), peccato che la dinamica di lungo periodo rimanga negativa (+11,0% vs +20,8% dell’inflazione dal 2015 a oggi). «Il 2024 segna un’inversione di tendenza, vero, ma non va dimenticato che nel 2022 e nel 2023 la variazione dell’inflazione è stata ben superiore a quella dei salari, e ha eroso in modo significativo la crescita salariale osservata. In particolare, l’inflazione media nel 2022 è stata oltre l’8%, e nel 2023 è stata del 5,6%. Ciò implica che, anche se i salari nominali sono aumentati, i lavoratori di ogni inquadramento hanno perso potere d’acquisto, nonostante il recupero del 2024». Morale: dal 2015 i lavoratori dipendenti italiani hanno perso circa il 10% di potere di acquisto. 

In compenso, la componente variabile media delle retribuzioni tra il 2023 e il 2024 è leggermente aumentata, così come sono aumentati i percettori di variabile: «Dal 2022 al 2024 la quota è di percettori del variabile è cresciuta, dal 31,4% all’attuale 37,0%, seppur la differenza percentuale non sia poi così significativa», conferma Federico Ferri. «Nonostante i benefit siano ormai comuni tra tutti gli inquadramenti, risultano più diffusi tra i dirigenti (l’80% ne beneficia) e meno tra gli operai (solo il 24% ha accesso a qualche forma di benefit). Quanto ai piani di welfare aziendale, indipendentemente dalla fonte di finanziamento e a eccezione di quelli obbligatori previsti dai Ccnl, riguarda circa il 37% dei lavoratori nel mercato (la medesima percentuale vista per i percettori di una quota variabile), con una quota media pari a 759 euro. Tra coloro che sono eleggibili di un sistema di incentivazione collettivo (PdR), il 55% godono della possibilità di convertire la quota variabile in servizi welfare». 

Un gap dopo l’altro, insomma. E se quello tristemente più famoso è il gender pay gap – che sulla Ral, stando ai rilievi di JobPricing, è del 7,2%, che cresce all’8,6% sulla Rga, il che significa che in media gli uomini guadagnano circa il 7,2% in più delle donne, con la differenza maggiore tra gli operai (9.9%) e tra i dirigenti (8.1%) – anche l’età conta, in busta paga. Perché è vero che la retribuzione cresce con l’età, ma è anche vero che la crescita percentuale man mano si assottiglia: «La crescita media dei salari nel corso della carriera lavorativa è del 30,4%. Ma il salto retributivo maggiore avviene nei primi anni», sottolinea Matteo Gallina. Non solo: tra le grandi qualifiche professionali e contrattuali, il differenziale maggiore tra inizio e fine carriera si riscontra tra gli impiegati (23,9% per la Ral e 25,3% per la Rga), e la variazione minore tra i quadri (6,6% sia per la Ral sia per la Rga). E un altro gap è servito.

Non bastasse, c’è pure il gap territoriale: la differenza tra nord e sud è di circa 3.550 euro l’anno. «Sebbene negli ultimi anni sia prevalso il cosiddetto “catching up effect” tra le regioni del sud e quelle del nord, il salario medio delle regioni settentrionali supera ancora quello del sud di oltre il 10%», dice Ferri. Manco a dirlo, la Lombardia risulta la regione più pagata del Nord (spinta dalle retribuzioni medie milanesi), con 33.635 euro, il Lazio del Centro con 33.242 (spinta dalle retribuzioni medie della Capitale) e l’Abruzzo del Sud e Isole con una Ral media di 29.486. L’ultima in classifica? La Basilicata, con uno stipendio fisso in media inferiore a 28mila euro.

Persino lo smart working genera dei gap in busta paga. Analizzando i dati del database di JobPricing da cui è stata esclusa, per ovvi motivi, la componente operaia, si osserva come i profili che beneficiano dello smart working, in media, guadagnano più di chi invece non ne usufruisce (41.916 euro contro 35.014 euro), con una differenza del 19,7%. Questa indicazione è particolarmente significativa fra gli impiegati, che rispetto a dirigenti e quadri rappresentano una quota ben più consistente dei lavoratori nel mercato: per questa categoria la differenza è del 10,5%. «chi può, per svariati motivi, usufruire dello smart working, ha anche uno stipendio mediamente superiore, probabilmente a causa del fatto che lo smart working è più diffuso in aziende di dimensioni maggiori e per professioni più qualificate, ma abbiamo scoperto che la retribuzione è inversamente proporzionale al numero di giorni in smart working, ossia più ne fai, meno sei pagato. Il sospetto dell’esistenza di un “effetto sostituzione”, in sostanza, sembra essere fondato», osserva Matteo Gallina. 

«Il contesto economico incerto, le tensioni geopolitiche e l’attuazione della Direttiva UE 970/2023 sulla trasparenza retributiva potrebbero influenzare le dinamiche salariali nei prossimi anni», conclude Federico Ferri. «Le aziende dovranno adattarsi a un mercato del lavoro sempre più competitivo, in cui la capacità di attrarre e trattenere talenti dipenderà non solo dalla crescita delle retribuzioni, ma anche dall’adozione di politiche retributive più trasparenti ed eque».

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