Perché le politiche di Trump sono un’incognita

Oltre annunci e proclami dell'amministrazione Trump. L'analisi di Polillo

Feb 15, 2025 - 23:36
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Perché le politiche di Trump sono un’incognita

Oltre annunci e proclami dell’amministrazione Trump. L’analisi di Polillo

Per momento, domani si vedrà, quel “rebus avvolto in un mistero che sta dietro a un enigma”, come era solito dire Winston Churchill, non è la Russia di Vladimir Putin, le cui intensioni sono fin troppo trasparenti, ma l’America di Donald Trump. Il Cremlino non solo ha le idee chiare, ma fa nulla per nasconderle. Riguardo all’Ucraina non intende demordere dagli obiettivi che l’Operazione militare speciale voleva perseguire. Vale a dire la conquista del Donbass, come minimo, se non la capitolazione di quello sfortunato Paese per riportarlo nell’orbita di Santa madre Russia. Di conseguenza nessun intervento della Nato, ma mantenere Kiev in una posizione di precarietà, in attesa di possibili mosse; qualora il primo tempo di quell’Operazione non fosse finito nel modo sperato.

In quel lungo periodo, durante il quale non saremo ancora tutti morti poi, una strategia non solo definita, ma teorizzata se è vero, come ha scritto ancora recentemente Giulio Tremonti ​che “era soprattutto il passato che doveva avanzare per essere la guida del futuro” (Guerra e pace, pag.41). Ma quale passato? Quello dell’Unione sovietica che ancora oggi riecheggia nelle celebrazioni patriottiche della guerra contro il Nazismo (ricordata dallo stesso Trump nel suo post su Truth) o quella imperiale pre Rivoluzione di Ottobre? Allora l’impero – ancora oggi dopo il crollo del muro di Berlino la Russia è lo Stato più esteso del mondo – includeva anche i Paesi baltici, che Lenin fu costretto a cedere nel sottoscrivere la pace separata di Brest-Litovsk, che gli consentì di abbandonare la Grande guerra. Al momento gli interrogativi rimangono. Ma certo che tutto ciò non è tranquillizzante.

Per Washington vale, invece, quello che dice Jake Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale e braccio destro di Joe Biden nella passata legislatura: troppo presto per esprimere un giudizio. Meglio aspettare. Il rebus di cui si diceva all’inizio. Il che andrebbe anche bene, se i principali collaboratori di Donald Trump si attenessero alla regola. Ma così non è stato per il Capo del Pentagono, Pete Hegseth, più interessato a sostenere le ragioni di Putin che a rappresentare il polo dialettico di una possibile futura mediazione. Cessione dei territori conquistate dalle truppe russe e nessuna copertura NATO. E che dire poi del Vicepresidente degli Stati Uniti, JD Vance, atterrato per la prima volta in Europa, ma già pronto ad intemerate senza senso. Figuriamoci se possa fare scandalo la critica alle mille inadempienze di una burocrazia, come quella europea, fin troppo assente dalla scena internazionale e poco disponibile al rischio. Ma, francamente, sentir dire che la cultura europea è poco più di un residuo storico della passata e soffocante esperienza sovietica è solo un enorme sciocchezza.

Non sarebbe nemmeno il caso di controbattere se non fosse evidente la struttura di quello pseudo ragionamento. Lo schema è sempre quello della contrapposizione popolo – élite. Negli Usa il populismo ha sempre avuto un fondamento costituzionale – “We the people” è l’incipit della sua carta fondamentale – ma non si deve esagerare. Quella contrapposizione può valere nel momento elettorale, ma poi l’equilibrio, anche grazie al formarsi di nuove élite – si veda quel che sta succedendo nella Silicon Valley – tende a ricomporsi ed i rapporti con il Deep State a rinnovarsi, nella continuità istituzionale. Almeno così dovrebbe essere nel normale funzionamento delle democrazie occidentali.

Certo, nella storia degli Stati uniti, vi sono stati momenti in cui la rottura ha prevalso rispetto ai momenti di continuità, per poi dar luogo ad una nuova consuetudine. Fu così ai tempi di Ronald Reagan, la cui presidenza pose fine alla guerra fredda contribuendo a determinare il crollo del vecchio regime sovietico. Ancora oggi gli storici discutono se tutto ciò fosse stato solo farina del sacco presidenziale o se quel regime avesse da tempo esaurito “ogni spinta propulsiva”, come pure era stato teorizzato dagli stessi comunisti italiani. Ma se non vi fosse stata la spinta più che decisa verso la Strategic Defense Initiative (SDI), che, con il cosiddetto scudo stellare, avrebbe definitivamente cambiato i rapporti di forza tra le due super potenze rivali, la transizione russa sarebbe stata completamente diversa.

E se a monte di tutto ciò non vi fosse stata una politica interna rivolta a risuscitare gli animal spirits dopo un lungo periodo di sonnolenza, la forza dirompente di quella sfida non avrebbe avuto, forse, lo stesso risultato. Ma dov’è oggi quella coerenza? Al momento non si vede. E la cosa è preoccupante. Nel pantheon repubblicano c’è anche un altro Presidente che non va dimenticato. George W Bush è stato colui che ha devastato la politica estera americana in quel delicato scacchiere ch’era il Medio Oriente. Contravvenendo alla lezione di suo padre, che come Presidente degli Stati Uniti, all’indomani dell’invasione del Kuwait si era rifiutato di detronizzare Saddam Hussein, operò in modo esattamente contrario, adducendo motivazioni – la presenza di armi di distruzione di massa – che non furono mai trovate. L’Iraq, che fin da allora era stato un baluardo contro l’Iran, fu sguarnito, consentendo al fondamentalismo sciita di prendere il sopravvento. Non avverrà così se l’Ucraina dovesse scivolare verso una pace ingiusta?

Donald Trump, almeno in questi primi giorni, sembra aver voluto seguire le lezioni di entrambi per quanto esse appaiono contraddittorie. Politica di potenza sul piano economico e finanziario contro tutti – si veda i dazi – senza distinguere troppo tra alleati e competitor politici. Sul piano della politica estera concentrarsi esclusivamente sui nuovi asset strategici e ridimensionare – fino al possibile abbandono – tutto il resto. Ed ecco allora il rapporto quasi da pari a pari, verrebbe da dire, con Putin. Ma senza il supporto europeo e la partecipazione di Zelensky. In Medio Oriente, invece, la difesa di Israele, che dovrebbe essere affidata, almeno in prospettiva, alle cure dell’Arabia Saudita: nuovo junior partner dello Studio Ovale.

Resta il vero centro dell’interesse americano: un aggiornamento della dottrina Monroe – nessuna presenza straniera ai confini delle due Americhe, compreso l’Artico prossima “via delle Indie” a seguito della de-glaciazione e l’Indopacifico, dove la concorrenza regionale e globale con la Cina diventa più forte. Vi sono elementi già evidenti di questa seconda preoccupazione. Il Giappone è uno dei Paesi che ha più contribuito da diversi anni al deficit commerciale americano. Ma contro Tokyo nessuna minaccia di imporre il benché minimo balzello. È comprensibile. Sarebbe come bombardare sul quartier generale: vecchia proposta delle guardie rosse cinesi.

Difficile dire se sarà questo lo scenario prossimo venturo. Dio non voglia: proprio perché amiamo gli Stati Uniti non vorremmo che si riducesse ad una semplice potenza regionale. Opererebbe – è vero – su un terzo della superficie terrestre, in attesa che Elon Musk ci porti su Marte, ma su tutto il resto del Pianeta sventolerebbe la bandiera rossa di Cina e Russia, con il codazzo dei suoi possibili alleati. Ed allora: altro che fine della storia!